Tutti d’accordo sul Crocifisso, ma nelle nostre scuole è sparito
DI PIETRO DE MARCO
Nel territorio fiorentino episodi di laica rimozione del crocifisso dalle aule sono di vecchia data. Un laicismo attivo, se non aggressivo, coltivato in cenacoli radical-socialisti e nella cultura dei pedagogisti della Facoltà di Magistero, la cui memoria è stata celebrata di recente nell’inaugurare la nuova sede. Il laicismo è filtrato da lì in generazioni di insegnanti, di operatori culturali, di quadri del-le amministrazioni locali, e ha prodotto nei decenni questa spoliazione di am-bienti e coscienze. Assente ogni resistenza delle altre culture politiche, minima in Toscana l’opposizione cattolica (laici e clero), quando non siano stati i cattolici stessi, quelli del dialogo e delle sue metamorfosi negli ultimi quarant’anni, a favorire la neutralizzazione degli spazi scolastici.
«Nelle scuole fiorentine scrive Matteo Leoni sul Corriere fiorentino la presenza del crocifisso è ormai un’eccezione. Non è mai stato appeso negli istituti di nuova realizzazione e rimane in poche aule (quasi mai in tutte) in quelli più vecchi. Il simbolo della fede cristiana non è più tra gli arredi che vengono forniti da Comune e Provincia e il suo acquisto spetta ai singoli istituti». Contro la celebre circolare MPI del 22 novembre 1922 e altre norme regolamentari degli anni Venti, per questo aspetto mai abrogate, e contro la circolare MPI dell’ottobre 1967, Edilizia e arredamento di scuole dell’obbligo.
La breve indagine che il giornalista ha condotto presso i dirigenti scolastici e prèsidi ha dato risultati che confermano un quadro di sorda, passiva, accettazione della perdita di cultura cristiana pubblica che caratterizza la società fiorentina. Non vi è più vis ideologica, se non raramente e in pochi; piuttosto, come tendo a suggerire, una rancorosa trascuratezza, un diffuso impoverimento nella visione del mondo, anche nei colti, aggravati dalla parallela fuga cattolica nel privato «comunitario» e nel parrocchiale. D’altronde cos’è l’emergenza educativa, di cui parliamo con allarme, se non l’impoverimento, negli adulti, delle istanze a trasmettere all’intero corpo sociale principi e saperi ordinanti? Nell’università l’impasto di metodo senza contenuti, di generalità (e retoriche civili) senza contraddittorio e di utopismo, che ha nutrito generazioni di educatori nell’intera filiera formativa, ha generato giovani intelligenze in fuga dalla realtà, capaci al più di abitarne gli interstizi necessari alla sopravvivenza. In questa fuga onirica, che qualche volta viene chiamata cultura alternativa, la struttura per sé realissima che è l’ordine cristiano di senso, nei suoi istituti e simboli, resta come fuori portata. Non il cristianesimo è «incapace di parlare» ai contemporanei; ma i contemporanei sono stati resi incapaci, o inidonei, a parlare il linguaggio decisivo della formazione cristiana. Così, in Toscana, è magari a tipica noncuranza del funzionario, associata ad un anticlericalismo che non sa neppure a cosa si opponga, che decide di ignorare antiche, ma non abolite, norme che chiedono all’arredo scolastico di includere il crocifisso, oltre ad una immagine che rinvii alla patria, e con essa all’ordinamento democratico.
Troviamo sul Corriere fiorentino una curiosa giustificazione, che distingue tra simboli e arredi, contro la competenza linguistica di chi redigeva i testi norma-tivi dei lontani anni Venti. E fa sorridere, poiché sembra venire dall’esperienza di persona concreta per cui gli arredi sono seggiole e tavoli; al più lavagne e carte geografiche (ce ne sono ancora nelle classi?). Sennonché arredo in italiano è proprio la suppellettile fine, fino all’ornamento; ciò che fa di un ambiente più che uno strumento per vivere, uno spazio degno di essere vissuto, e non perché «comodo» ma perché significativo. Vi è poi il dirigente che non aggiunge e non toglie crocifissi. Ma, dopo un’imbiancatura, il crocefisso spesso non torna a suo posto: è il nuovo che avanza. Vi è chi non vede e vi è chi non chiede. Tutto sembra governato da un’attesa che il tempo operi da solo, non sapendo neppure in che direzione. Alcune di queste attese inadempienti sono certamente deliberate, maliziose, perché un’amministrazione attenta ai propri obblighi eviterebbe omissioni, come in quell’unica scuola pubblica di Firenze in cui si provvede obtorto collo che le aule siano arredate del crocifisso secondo regolamento.
So che i puristi cristiani si scandalizzano di queste recriminazioni. Meno crocifissi e più vangelo! ci dice la figliolanza del sentimentalismo roussoviano. In realtà evitiamo, con ostilità attiva, ma nascondendo la mano, o con resistenza passiva che i forti segni che il Crocifisso concentra in sé giungano dall’anonima (ma così non più anonima) parete di un ufficio o di un’aula alle nostre anime e a quelle dei nostri figli. La pretesa di giudici europei senza giurisdizione, e senza vera cultura europea, di dare il colpo di grazia alla residua memoria pubblica, negli spazi formativi, del sacrificio e della regalità di Cristo, è solo quello che ci meritiamo, se alla consolante reazione identitaria di questi giorni non corrisponderà una rianimazione di pareti (e di anime) vuote. Sapremo farlo? Vedo troppi attori pubblici con la coda tra le gambe, nonostante la sentenza non sia giustiziabile. Comprensibilmente una mia nipote diciottenne mi chiede se la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo le consentirà almeno di portare una piccola croce al collo.