Teologia e fede dei semplici

Pietro De Marco

Il penetrante giudizio di Gianni Baget Bozzo (consultabile anche in ragionpolitica.it) sull’enciclica Spe salvi è apparso con un titolo, La fede di semplici, che conferma un topos, un diffuso ed efficace argomento dell’intelletto “cattolico” interno ed esterno alla appartenenza ecclesiastica, contro le teologie della stagione postconciliare. Benedetto XVI ne emerge quale difensore della fede comune; come scrive Baget Bozzo, “questa enciclica del Papa conforterà dunque la fede dei semplici credenti, che hanno creduto alla vita eterna (…), quindi nell’immortalità dell’anima, con cui la Chiesa, fino a qualche decennio fa, aveva espresso il punto di contatto tra il tempo e l’eternità”. Dirò subito in quale senso questa implicita, e rassegnata, diagnosi dell’isolamento di papa Ratzinger mi sembri, di fatto e in linea di principio, da non coltivare.

Pochi giorni prima avevo sentito dire qualcosa di simile, nel corso di un dibattito, da uno studioso laico di grande prestigio e di robusta cultura, anche religiosa. Prima di lui un teologo, ed ecclesiastico, non più giovane, molto noto in Italia, aveva spiegato ad un pubblico perplesso come la Speranza teologale cristiana sia senza un oggetto certo (in virtù del carattere solo metaforico della Scrittura e del Simbolo), ma si giustifichi come interpretazione ed elevazione dell’impulso vitale della storia umana e cosmica. Il laico (che serenamente e pubblicamente si afferma cristiano) ha osservato al nostro teologo che di fronte alle sofisticazioni si pone comunque una fede comune che ha difficoltà ad intendere (e ad accettare) le conclusioni teologiche, ma che conserva egualmente la sua verità e ragione d’essere (anche teologica). L’osservazione era semplice e garbata, più semplice e garbata di come io la propongo, ma mirava consapevolmente ad un bersaglio, la evanescente teologia contemporanea, anche cattolica, nella sua presuntuosa estraneità alla fede trasmessa e vissuta.

Consento, s’intende. Molti anni fa avevo ho incontrato nelle pagine scientifiche di un indianista una (per me) salutare durezza nei confronti degli “intellettuali” teologi delle diverse religioni, rigoristica-mente ciechi di fronte alla ordinaria presenza del divino presso e per gli uomini semplici, i fedeli. Non ho dimenticato questo insegnamento. Consento, ma a condizione di un chiarimento essenziale.

A mio avviso, rappresentare la condizione cattolica come divisa tra la teologia, modernisticamente smarrita, e la fede dei simpliciores è inesatto e, in sede polemica, persino controproducente. Le teologie senza Trascendenza e senza Anima, senza Dogma trinitario né Sacrificio eucaristico, le teologie come ermeneutiche e terapeutiche spiritualistiche, rivestite di verbiage comunitario, non sono la sola teologia (non certamente la teologia cattolica) contemporanea. Quale rigorosa teologia cattolica potrebbe affermare la incompatibilità tra la libertà umana e il Dio persona e creatore (Vito Mancuso scrive grossolanamente, per polemica: “un Supremo Ente personale alla guida del mondo”), o definire l’anima come lo “scarto tra il totale della nostra energia e l’energia che in noi si esprime come corpo” (sempre Mancuso)? Ad un secolo dalla profonda liquidazione del Modernismo operata dalla Pascendi!

La diversità del papa ne è una prova, proprio in quanto teologoreligio popolare; egli fa teologia e, non isolato, teologia rigorosa. Per grazia di Dio nella Chiesa cattolica non si è cessato di fare teologia diversamente dalle derive che pure le appartengono ma che assolutamente non la saturano. Anzi avviene che anche nei Seminari e nelle Facoltà Teo-logiche i futuri preti mostrino ormai tutta l’insoddisfazione per la riproposizione di tesi teologiche “critiche” e “aperte”, in effetti neo-modernistiche e antiromane, di fronte alla loro sete di un pieno e rigoroso credere.

Ma una essenziale distinzione vale anche per il “popolo”, per i “semplici”. Da un lato, non solo il fervido popolo di Radio Maria, ma il prevalente consenso dei praticanti chiede (o avvalora) un’altra teologia – e possiede altra teologia implicita. Dall’altro molti laicati parrocchiali “militanti” attingono al minimalismo teologico degli intellettuali-teologi che vendono in libreria; questi laicati attivi sono entro la deriva teologica, e la traducono in catechesi e pastorale teologicamente minimalistiche. Così, inevitabilmente, anche il popolo credente è diviso.

Il poco sapere cristiano dei praticanti, registrato dai sondaggi “socio-logici”, è dunque il risultato di un deliberato, pluridecennale, e interno, vacuum teologico-catechetico che si pretende teologicamente giustificato. Si chiedeva un amico, giorni fa: “Il primo giorno di catechismo è stato detto al mio figlio piccolo che l’Inferno non esiste; come devo comportarmi con i catechisti?”.

La portata dei dissensi ecclesiali di oggi non si riduce, dunque, al conflitto tra i vizi dell’intelletto e la forte fede dei semplici, tutt’altro; lasciamo questa letteratura ai Cento chiodi di Olmi, il cui “Gesù” è, peraltro e come giusto contrappasso, proprio il tipo della vacuità teologico-esegetica contemporanea.

Al collasso della fede (della fides quae creditur, la Fede nel suo con-tenuto, ossia come “Fondamento delle cose che si sperano”) nelle mode teologiche non si oppone solo il Popolo cristiano, che può anzi esserne vittima. Si oppone una operosità teologica radicata nella con-tinuità della Tradizione e interprete di un Concilio che (secondo rigo-rosa ermeneutica) non autorizza alcuna delle derive dogmatiche in atto da decenni. E vi si oppone, come mandato proprio, il Magistero petrino. Questa teologia, che unisce dogma e predicazione (titolo di una celebre raccolta di scritti di Joseph Ratzinger), è per se stessa comunicante con la fede dei “semplici”, anzi ne è Madre.