Lavori pubblici e bene comune

Ospitiamo un intervento di Simone Siliani che prende spunto da un nostro editoriale dell’ottobre scorso(Rimotivare i laici in un impegno più culturale che politico). Siliani è stato assessore alla cultura del Comune di Firenze e prima ancora consigliere e presidente del Consiglio regionale. Nato a Firenze nel 1962, laureato in Lettere e filosofia, collabora da anni con la rivista «Testimonianze». È approdato alla politica attraverso l’esperienza dei movimenti pacifisti e la collaborazione con padre Ernesto Balducci.

DI SIMONE SILIANI

Sottolineo alcuni dei concetti e delle parole dell’editoriale di Alberto Migone su «Toscanaoggi» del 28 ottobre scorso (Rimotivare i laici in un impegno più culturale che politico) per proporre all’attenzione dei lettori – nello spirito dell’articolo – un’esperienza di prassi politica che, fuori da dibattiti meramente teorici, può far comprendere come la costruzione della polis per l’uomo, cioè equa e finalizzata al bene comune, sia concretamente possibile qualora gli enti pubblici tengano sempre fissa la barra della nave in direzione dell’unica stella polare che ci deve guidare in un paese davvero laico, l’interesse pubblico.

Da assessore alla cultura del Comune di Firenze ho seguito per 6 anni l’attuazione del programma di lavori pubblici sui beni culturali immobili denominato NOP, per abbattimento di barriere architettoniche e adeguamento alle norme di prevenzione incendi: opere per oltre 30 milioni di euro su monumenti come Palazzo Vecchio, Forte Belvedere e altri minori, date in concessione (fuori quindi dalle procedure di evidenza pubblica) nel 1998 ad un gruppo di imprese.

I lavori, in buona parte realizzati, sono stati caratterizzati da una forte conflittualità fra Comune e imprese, le quali hanno avanzato per ogni lavoro riserve (cioè richieste di ulteriore denaro) fino talvolta a raddoppiare il costo previsto del lavoro stesso. Accade sovente nei lavori pubblici. Spesso l’amministrazione pubblica, debole nella progettazione e incapace di fronteggiare sul piano giudiziale e di merito le imprese, soccombe, transando cifre concordate con le imprese (che quindi sono abituate a chiedere ben più del voluto per poi accordarsi a livelli soddisfacenti per loro) oppure in sede giudiziale (sul «Corriere della Sera» del 9 ottobre si riferisce che lo Stato perde il 95% degli arbitrati).

L’interesse pubblico, che è insieme la realizzazione dell’opera e il pagamento equo per quel lavoro realizzato con fondi pubblici, si perde, per la rinuncia dell’ente pubblico a svolgere il proprio compito di indirizzo e controllo e, nelle zone grigie che inevitabilmente si creano, c’è spazio per tutto, sprechi, connivenze, lassismo, corruzione. Certamente è anche qui che si consolidano i cd. poteri forti che ricattano gli enti pubblici. Nel nostro caso, invece, si è tenuto fermo il principio della preminenza dell’interesse pubblico e si è recuperata la funzione di controllo, che in fase di adozione degli atti amministrativi si era smarrita, sia sui cantieri (grazie alla corretta interpretazione della funzione di direzione dei lavori che, per quanto soggetto esterno all’amministrazione, è uno strumento di controllo al servizio della stessa che deve controllare la corretta esecuzione dei lavori), sia in sede amministrativa (non accogliendo negli atti amministrativi le richieste abnormi e immotivate delle imprese), sia infine in sede giudiziale (non accettando transazioni che avrebbero acconsentito ad impropri guadagni per le imprese). Non è facile, perché la «macchina» amministrativa del Comune non è attrezzata per questo tipo di confronto. Per un politico non è «remunerativo» giacché si tratta di lavoro che non ripaga in immagine e impone una continua tensione e attenzione al contenuto di ogni singolo atto. Ma è l’unico modo per tutelare l’interesse pubblico. Così, sono cresciuti e contenziosi, lunghi e complessi; che però ora stanno dando risultati positivi.

È di pochi giorni fa la seconda positiva sentenza del lodo arbitrale su uno di questi lavori, il Casone di Sorgane: ebbene su un importo contrattuale di 178 mila euro, l’impresa ne richiedeva 221 mila in più, ma gli arbitri ne hanno riconosciuti solo 11 mila (il 6%) perché l’impresa richiedeva pagamenti per lavorazioni non eseguite. Non è questione meramente tecnica: grazie al comportamento concreto del Comune, abbiamo risparmiato oltre 150 mila euro di soldi pubblici che sarebbe stato iniquo concedere all’impresa. La precedente vertenza arbitrale, relativa ai lavori dell’ex Pretura, che vedeva le imprese richiedere riserve per 1, 250 milioni di euro, ha avuto un esito addirittura clamoroso, giacché tutte le richieste delle imprese sono state respinte in quanto non giustificate. Le due sentenze favorevoli al Comune aprono la strada a molte altre analoghe su queste opere e possono indicare un metodo utile per il Comune. Naturalmente sorgono spontanee alcune domande: vi è un giudizio etico da dare su richieste di denaro per lavorazioni non eseguite? È questa una prassi consolidata nei lavori pubblici? Quanto denaro pubblico se ne va via così? Nei tanti casi di transazioni e accordi bonari quanto spazio vi sarebbe per una maggiore giustizia e per recupero di risorse da destinare al bene comune? Perché l’Amministrazione pubblica non si organizza per svolgere così la sua funzione istituzionale, ad esempio controllando bene cosa succede sui cantieri, e invece si concentra su azioni di minore rilievo ma di maggiore ritorno d’immagine? Tutte domande di prassi politica, ma anche di contenuto etico che, a mio parere, vanno nel solco dell’editoriale di Migone e sulle quali, credo, sarebbe interessante un dibattito non solo nell’area dei cattolici impegnati nel sociale, ma in tutta la comunità politica.