Il prete, un «uomo esposto»
Vorrei fare alcune considerazioni sul prete, il suo ministero, la sua vita. Dopo mesi di silenzio, l’occasione mi è fornita dalla Giornata diocesana fiorentina per il Seminario dell’8 gennaio che, per la prima volta dopo tredici anni come rettore, ho vissuto nella preghiera dall’esterno.
D’altro lato, ed è la seconda considerazione, le necessità della vita pastorale, i numerosi impegni, le iniziative da creare e sviluppare per far fronte al bisogno di evangelizzazione, di catechesi, di impostazione di una seria liturgia e via dicendo, portano ad una parcellizzazione molto forte nella vita del prete, ad uno spezzettamento delle sue attività, inevitabilmente, spesso, a un disperdersi. Il ministero spesso si traduce, e senza colpa!, in una corsa troppo affannosa fra impegni, riunioni, incontri con le persone. Difficile realizzare il senso unitario della propria vita. Talvolta ne deriva una caduta di senso o di significato del proprio impegno, con conseguenze che possono essere gravi.
So bene che di fronte a tutto questo, e proprio per superare tutto questo, nella vita del prete deve esserci la centralità dell’Eucarestia quotidiana, il dono e l’impegno della preghiera che ritma le ore del giorno, ci sono tutti i doni della Grazia e tutti gli strumenti di una vita spirituale seria e ben impostata. Sono le realtà che il Seminario insegna ed alle quali avvia.
E tuttavia insisto nell’invito a guardare la realtà complessa che ci attornia. La realtà del mondo che chiede sempre di più un prete «esperto di umanità» per la complessità delle situazioni che normalmente la gente vive, e la realtà della Chiesa che domanda un prete capace di vivere nel profondo di sé la tensione di percorsi nuovi di evangelizzazione e di annuncio della buona notizia del Regno: tutto questo in un linguaggio capace di parlare ma anche di essere ascoltato, capace di incidere nel cuore e, ripeterò ancora, nel vissuto concreto delle persone.
E dunque allora: in questa realtà, che prete noi cerchiamo? Nel suo intervento Leda Minocchi lamenta «un vuoto di persone consistenti in se stesse, mature in umanità e in esperienza di fede profondamente vissuta, armoniche sul piano affettivo, forti nella prova, piene di speranza». Pensando al volto di diversi preti giovani, che mi fanno dono della loro amicizia dopo anni vissuti insieme, debbo dire in verità che vi riconosco una ricchezza di umanità giovanile, di entusiasmo e sì, anche di speranza capace di incidere e dare una bella testimonianza del Signore, per cui il quadro non è così totalmente brutto. Tuttavia concordo che bisogna riflettere, e concordo pienamente sul fatto che «abbiamo bisogno oggi come non mai, di trovare nel prete l’immagine del Cristo, una persona, cioè, che incontra il cuore degli uomini e delle cose, ma, soprattutto, l’uomo vero, di carne, ossa e sangue, che conosce la fatica d’anima di essere cristiano e santo, custode geloso della grande chiamata, testimone luminoso di un Vangelo vissuto».
Non si tratta oggi per il prete di «cose da fare», si tratta, nelle difficoltà del presente, di «vita» e di impostazione di vita: si tratta di modi di essere e di porgersi, di ascoltare e di parlare, di avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù secondo la bella espressione paolina. Personalmente detesto l’espressione «operatore pastorale» applicata al prete, e bisogna stare attenti al linguaggio e alle parole che si usano e che trovo spesso in riviste specializzate. Il prete è «anche», se si vuole, operatore pastorale, ma è ben di più nel mistero di Dio, della chiamata, della sua propria vocazione!
L’autore di questo intervento, mons. Fabrizio Porcinai, è stato per molti anni rettore del Seminario di Firenze. Adesso è vicario episcopale per l’economia e coparroco della Basilica fiorentina di San Lorenzo. L’intervento di Leda Minocchi, al quale fa riferimento, è stato pubblicato nella pagina delle lettere nel n. 45 di Toscanaoggi (11 dicembre 2005).