Cattolici, è il tempo del lievito più che della milizia

di STEFANIA FUSCAGNIHo letto e riletto il «curioso» fondo di Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 20 dicembre sulla presunta afasia dei cattolici italiani. Più che di un’analisi, mi sembra si tratti di un interessante intervento-sintomo della inquieta consapevolezza che comincia ad attraversare alcuni «intellettuali» – perlopiù di sinistra e liberali –: correre il rischio di essere sovrapposti alla realtà – nel caso specifico il mondo cattolico – piuttosto che esserne interpreti. È un segno sul quale conviene riflettere. Due, certamente tra altri, sono gli elementi che hanno contribuito all’avvio di questo processo; il primo: l’assoluta attualità e pregnanza teologica dei messaggi di Papa Ratzinger che riesce, in un linguaggio scevro d’ogni orpello «tradizionalista», a parlare all’intelligenza di laici credenti e di laici non credenti; è sua la formulazione dell’espressione: «principi non negoziabili… secondo ragione». Il secondo: la mancanza di «timidezza» della gerarchia che, dopo tre lustri dalla caduta della Dc, ha consolidato la prassi di parlare senza mediazioni, siano o no politicamente corrette.

Ma veniamo alla tesi esposta nel titolo, caratterizzato come spesso avviene da una certa perentorietà: «Una società senza cattolici»; e, a precisazione, nell’occhiello: «La Chiesa c’è, ma le mancano i militanti». Galli della Loggia si scaglia con accorata veemenza sulla non presenza dei cattolici nei luoghi della comunicazione «che fa opinione», non riconoscendo come nuovo valore, il riserbo-pudore dei cattolici i quali, presenti ad ogni titolo nella società italiana, sono giunti ad una matura «gestione» più intima e privata della propria fede.

A me non sembra si tratti di una sorta di pericolosa afasia, ma di un modo diverso e più efficace di intendere l’essere cattolici: quello di essere responsabili nella società in cui vivono. Peraltro, una lettura attenta de l’Avvenire, potrebbe offrire elementi per verificare che il cosiddetto mondo cattolico – più d’ogni altro – è stato stimolato ad un uso intenso dei mezzi di comunicazione ad un fine preciso, quello di una nuova evangelizzazione della società italiana.

Si aggiunga che alla riflessione corrente non sono ancora emersi due fatti che i cattolici hanno metabolizzato positivamente; il primo: dopo papa Luciani, il Vaticano non è più guidato da papi italiani, sebbene, come papa Ratzinger, profondi conoscitori della particolare realtà italiana. Il secondo: con il Convegno di Verona è stata formalizzata la fine dell’unità politica dei cattolici italiani, quell’unità voluta strenuamente da papi come Paolo VI. Alla luce di tali processi, già conchiusi, «l’eccesso di politicizzazione e di visibilità dei cristiani rappresentati in Parlamento dai partiti o dalle correnti che in qualche modo si presentano come eredi della Dc, appare una “quinta di palcoscenico” destinata ad essere prima o poi superata se non accantonata». Sfugge che, trattandosi di esponenti apicali dell’associazionismo cattolico strutturato, essi rappresentano una minoranza rispetto alla maggioranza dei cattolici della messa domenicale che con matura saggezza contribuiscono in modo determinante alla vittoria nel referendum sulla procreazione e manifestano in massa – senza parole d’ordine come il 2 dicembre in Piazza San Giovanni – per significare un disagio vero di una società che si guarda dentro preoccupata..

A me il tutto appare una buona novella: «Alla Chiesa il pulpito; ai cristiani la società», nella consapevolezza e nel convincimento che la formula propria per i cristiani oggi in Italia sia «meno milizia, più lievito». Un lievito che agisce all’interno della società nei comportamenti e nell’azione, più che nella presa di posizione pubblica gridata.

A guardar bene, si tratta di un tardo allineamento alla situazione europea e americana dove le gerarchie ecclesiastiche sentono l’impegno di affermare liberamente e senza scandalo le proprie idee e i propri valori e lasciano ai credenti il compito, da un lato, di far valere i propri convincimenti influenzando il proprio mondo con la testimonianza della propria fede, l’unico vero lievito in una società scristianizzata, ma intrisa di valori enucleati dal cristianesimo; dall’altro, nei momenti della decisione pubblica su temi sensibili, attraverso il proprio voto. Ciò non solo perché la politica dell’alternanza nei Paesi a democrazia piena corrisponde alla necessità di mantenere quelle che sono considerate scelte strategiche chiunque governi, ma perché la postmodernità – con l’irruzione delle scienze della vita, il confronto globalizzato delle civiltà – chiede che le strutture e i soggetti come la Chiesa enucleino ciò che d’essenziale c’è nella verità che predicano, facendo guadagnare in chiarezza ed efficacia quei «principi non negoziabili» che – in quanto tali – non sono oggetto di negoziazione politica. Ciò a me pare non solo buono perché necessario, ma molto buono perché pone i cristiani di fronte alla responsabilità di dare alla loro presenza efficacia e non solo evidenza.

La scommessa sta nel trovare consenso e convergenza nella società sui cosiddetti principi «non negoziabili secondo ragione», coinvolgendo chiunque abbia maturato le ragioni del convergere non per mediazione, ma perché i valori della persona, della vita, della famiglia costituita da un uomo e da una donna aperti alla nascita dei figli, sono frutto della civiltà cristiana formatasi in 2000 anni e in quanto tali possono essere propri a laici credenti e laici non credenti.

Ammetto, ai cattolici come me, che hanno memoria storica personale del mezzo secolo scorso, fa un certo effetto sentirsi sopravanzato nella difesa di quelli che ha considerato valori «propri», da laici come Marcello Pera, Ferdinando Adornato ed altri. Tutto ciò è buono, lo stiamo sperimentando nel veder delinearsi una convergenza positiva di percorsi che i laici cristiani credenti e quelli non credenti stanno compiendo perché «la prospettiva e i valori religiosi» non vengano «virtualmente espulsi dal senso comune». Sta ai credenti poi far germogliare una fede capace di produrre nuovi valori per la società d’oggi.