Educazione, la grande assente

Si discute molto della sicurezza nelle nostre città. Un tema spesso legato alla massiccia immigrazione registrata negli ultimi anni. Sulla «filosofia» del dibattito, ma anche sui provvedimenti concreti, interviene don Giovanni Momigli, parroco di San Donnino, parrocchia alle porte di Firenze con una fortissima percentuale di immigrati, soprattutto cinesi. Don Momigli è anche direttore dell’Ufficio diocesano fiorentino per la pastorale sociale e il lavoro.

C’è qualcosa che non mi convince nel dibattito sulla sicurezza delle nostre città che si è sviluppato in questi mesi. Più che le scelte in sé stesse non mi convincono molte delle motivazioni, non mi convince la filosofia che sembra stare alla base di certe affermazioni e di certe scelte, che pur in sé hanno una loro ragionevolezza.

Per cercare di rendere più trasparente il mio pensiero, voglio rifarmi all’esperienza che ho maturato come parroco di San Donnino dal 1991. Nella complessità di una situazione caratterizzata da una forte presenza di immigrati cinesi e da posizioni diametralmente opposte e da me ritenute insufficienti se non addirittura pericolose per il futuro del contesto sociale, ho trovato alcuni riferimenti che hanno poi indirizzato tutta la mia azione nella Nota pastorale della Commissione Giustizia e pace della Cei, dal significativo titolo «Uomini e culture diverse: dal conflitto alla solidarietà». In questo documento, fra l’altro, si trovano affermazioni come queste: «Scaturendo dalla dimensione sociale dell’uomo, dalla sua comune dignità, la solidarietà richiede reciprocità. Essa perciò non impegna solo il gruppo o paese che accoglie, ma anche chi viene accolto. Il suo fine non è l’assistenza dell’altro, ma la crescita degli uni e degli altri, pur attraverso contributi diversi. Fa parte della stima dell’altro non solo l’offerta di accoglienza e di aiuto, ma anche l’attesa di una risposta analoga» (n° 25). «…Non va però dimenticata la necessità di regole e di tempi adeguati per l’assimilazione di questa nuova forma di convivenza, perché l’accoglienza senza regole non si trasformi in dolorosi conflitti. Sia il rifiuto del “nuovo” come il suo accoglimento non organizzato sono spesso, alla fine, motivo di ritardi storici» (n° 33).

Concetti, quelli del documento Cei, che mi sono sempre parsi essenziali per orientare le scelte e le azioni per la costruzione di una società plurietnica e interculturale. Concetti, però, che in molte situazioni e in certi ambiti – anche cattolici – mi hanno fatto sperimentare un pesante isolamento e non poche difficoltà, sia nei confronti di coloro che predicano la legalità, perché ritenuto troppo aperto agli immigrati, sia nei confronti di coloro che lavorano per l’accoglienza, perché mi hanno sempre percepito «ambiguo», se non addirittura organizzatore della repressione nei confronti dei cinesi, come qualcuno ha scritto, semplicemente perché ho sempre combattuto contro le concentrazioni etniche.

Non essendo mai riusciti a fare un vero e proprio salto di qualità nel dibattito sul fenomeno migratorio, soprattutto in assenza di un seria riflessione e di un vero confronto su che tipo di società vogliamo costruire, nelle nostre grandi città – sia pur con alcune differenze anche significative – la clandestinità, con le problematiche che essa comporta, ha mantenuto una certa consistenza; le situazioni di sfruttamento degli immigrati non sono affatto diminuite; lo sfruttamento dei minori è presente; i venditori abusivi sono proliferati; i lavavetri hanno riempito i semafori; le prostitute anche minorenni si sono moltiplicate; il forte degrado umano e ambientale si è fatto sempre più palpabile. E con tutto questo è aumentata la percezione di insicurezza, oltre che le dinamiche criminali vere e proprie. Con una metafora si potrebbe dire che dove non si è intervenuti sul nascere dei vari fenomeni con la cinquecento, perché considerata non umanitaria dagli uni o troppo blanda dagli altri, oggi si rischia di intervenire con il carro armato.

Senza entrare nel merito, perché non è questo l’oggetto della mia riflessione, solo a titolo di esempio mi domando: se non ci fossero state «molestie» e non ci fosse stato il «pericolo di conflitto sociale», come recita la delibera del Comune di Firenze dell’agosto scorso, ai lavavetri sarebbe stato permesso di continuare a rimanere ai semafori? E, sia chiaro, con questo esempio non intendo affatto entrare nel merito delle iniziative intraprese, ma solo guardare alle motivazioni.

Secondo una visione di società che presuppone apertura al nuovo e accoglienza organizzata nel rispetto delle leggi e della dignità della persona, come dice il documento Cei, sul fenomeno lavavetri, così come su altri fenomeni che oggi accendono il dibattito, bisognava intervenire da tempo, «sul nascere», o impedendone la presenza, perché non ritenuto dignitoso permettere la presenza e lasciare le persone a se stesse, producendo così anche false attrattive [e non si dica che non è tecnicamente possibile, perché oggi sembra esserlo. Se poi si dice che il clima politico non consentiva quel che oggi consente, si confermano le mie osservazioni], oppure codificando e regolamentando con quella creatività che le situazioni nuove richiedono. In tutti e due i casi, sia ai cittadini stranieri che ai cittadini italiani, si sarebbe mandato un segnale ben chiaro di cosa si intende per dignità e convivenza e quale tipo di società si intende costruire. Per la verità, anche limitandosi a permettere la presenza si è comunque trasmesso un messaggio: ma è quello si voleva trasmettere?

Con questo, non intendo affermare che se non si è intervenuti quando e come si doveva intervenire, avendo una chiara visione della società che si vuole costruire, oggi non si debba intervenire. Il mio ragionamento vuole solamente mettere in luce come gli interventi di oggi, anche se di segno diverso, sembrano filosoficamente sulla stessa linea dei non interventi di ieri.

Inserendosi nel dibattito in corso su immigrazione e sicurezza, nel suo editoriale su La Repubblica di domenica 4 novembre, Eugenio Scalfari afferma che «Educazione e prevenzione restano necessarie, ma il momento repressivo non può essere e non deve essere eluso».

È vero. Il momento repressivo non può e non deve essere eluso, soprattutto in certe situazioni ed in certi momenti. Sono, però, convinto che questo momento repressivo, oggi avrebbe un’altro spessore, un’altra drammaticità e soprattutto un altro respiro operativo e culturale se, a tutti i livelli, di fatto non fosse stata elusa quell’educazione e quella prevenzione che Scalfari dice essere necessarie, ma che nel dibattito quotidiano o è assente oppure è ritenuta impropria.

Sono infatti convinto – e questa è la base del mio ragionamento – che la grande assente nell’azione di governo delle nostre città sia stata e continui ad essere proprio la dimensione «educativa». Un dimensione assente prima di tutto nelle molteplici azioni assistenziali, pur necessarie e doverose, che sono cosa assai diversa dalla vera e propria solidarietà, che esige progettualità e reciprocità. Del resto è proprio questa essenziale dimensione che oggi sembra mancare a livello diffuso, a partire dalla famiglia.

Basta pensare, ad esempio, a quanto avvenuto per i telefonini nelle scuole. Fino a quando non sono rimbalzati sui mass media gravi ed inquietanti episodi, il semplice avanzare l’ipotesi che il telefonino in classe non fosse cosa educativa faceva apparire fuori tempo. La stessa cosa non è avvenuta e avviene per gli ambulanti abusivi o i graffitari o i lavavetri? Non si interviene perché la cosa non è giusta o non è dignitosa, perché la città che vogliamo costruire deve avere determinate caratteristiche di solidarietà e legalità, dando così un chiaro segnale della filosofia che muove i vari interventi, che fra l’altro esigono la proposta di percorsi e progetti, ma si interviene solo quando il fenomeno è diffuso, pone questioni e la gente protesta, con le problematiche che comporta intervenire quando un fenomeno è diffuso e coinvolge alti numeri di persone.

La mia riflessione è proprio questa: il ritardo culturale e gli schematismi ideologici e moralistici, anche di molti opinionisti, che hanno caratterizzato e ancora troppo caratterizzano il pensare, il dire e l’operare, ha portato di fatto ad eludere la necessaria dimensione etica e educativa dalle scelte che si vanno ad assumere. Senza educazione neppure la stessa Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, proposta dal Ministero degli Interni nel giugno scorso, potrà mai trovare una sua concreta attuazione. Allora mi domando: senza la dimensione educativa, può esserci vera prevenzione? si può davvero osare un progetto di società che sappia coniugare bene privato e bene comune, principi e concretezza, progettualità ed emergenza e che abbia alla base la dimensione relazionale della persona e della società, che esige legalità, solidarietà e responsabilità; dialogo e identità; diversità e coesione sociale; pluralismo e interculturalità?

Don Giovanni MomigliParroco di San Donnino