Famiglia, coppie di fatto, pacs
Dieci anni fa, a Pisa, un consiglio comunale semideserto approvò a maggioranza una delibera che fissava i criteri per l’istituzione di un elenco delle unioni civili. Quella delibera sarebbe stata inizialmente bocciata dal Comitato regionale di controllo. Ma il comune toscano, primo in Italia, si sarebbe dotato di un registro delle unioni civili appena un anno dopo. Oggi sono circa 40 le amministrazioni comunali che hanno adottato un registro delle unioni civili. E la maggior parte sono in Toscana. Ovunque quei registri hanno catalogato pochissime coppie. A quello di Pisa quello che secondo i promotori ha avuto più successo in dieci anni, si sono iscritte 38 coppie, 32 eterosessuali e sei omosessuali. Ce n’era dunque bisogno? Su questo tema e più in generale sull’utilità o meno di regolamentare e «rendere pubbliche» le unioni civili tra persone dello stesso o di sesso diverso, ospitiamo una riflessione di Aldo Ciappi, presidente dei giuristi cattolici di Pisa.
Non si può, pertanto, senza cadere in una contraddizione insanabile, da un lato, pretendere il mantenimento di una condizione di piena libertà da ogni obbligo giuridico verso il compagno e, dall’altro, invocare dall’ordinamento statuale la tutela giuridica di una situazione che si è scelto, deliberatamente, di non rendere pubblica nelle forme prescritte dalla legge.
Al di là di circoscritte situazioni (per esempio il caso del diritto-dovere di assistenza del convivente verso l’altro che si trovi in condizioni di incapacità di intendere e volere, per es. in caso di grave malattia) a cui l’ordinamento, potrebbe trovare adeguate risposte, anche in via interpretativa, ad hoc, non pare esservi spazio per la creazione di un’autonoma figura giuridica.
Non vi è necessità di estendere al convivente, per es., i diritti successori, essendo già possibile provvedere allo scopo con una disposizione testamentaria da parte del de cuius, nei limiti, ovviamente, della quota disponibile, essendo una parte del patrimonio riservato ad alcuni soggetti legati da vincolo di parentela (dotati di certezza e stabilità) o le varie agevolazioni, fiscali, previdenziali, amministrative, ecc, giustificate dalle funzioni socialmente rilevanti di cui la famiglia si fa carico (vicendevole aiuto tra i coniugi, assistenza, cura ed educazione dei figli, ecc.).
Le due situazioni (famiglia e coppie di fatto) stanno tra loro (se non altro, per coerente rispetto della volontà delle parti), su piani ontologicamente diversi e non tollerano la presenza di figure intermedie in contrasto con il principio della libertà di dare, o non dare, vita a quella particolare societas naturale, costituzionalmente tutelata, in cui nasce e si sviluppa l’essere umano, luogo in cui le persone (in primis, gli stessi genitori e quindi i figli) trovano, attraverso una «organizzazione di sacrificio», una «protezione vigorosa di tutte le debolezze e di tutte le inesperienze » (Giuseppe Capograssi).
Per non parlare poi della questione, tutt’altro che irrilevante, se l’ordinamento statuale, in questa fase storica di grave crisi demografica e di sfrenato soggettivismo, debba guardare, o meno, all’ulteriore diffusione del fenomeno delle coppie libere con preoccupazione per le future generazioni e, dunque, curarsi, o meno, di promuovere e rafforzare la famiglia come nucleo stabile all’interno del quale possano trovare adeguata accoglienza le medesime.
I cosiddetti «Registri delle unioni di fatto», con tanta enfasi, ma con poco seguito, adottate da alcuni comuni, non hanno, per sé, alcuna rilevanza giuridica e, nella misura in cui sono funzionali a mettere sullo stesso piano, nelle politiche sociali, la famiglia con dette unioni, contrastano con i principi generali dell’ordinamento. Costituiscono, pertanto, mera attività amministrativa.
Se ciò è vero per le coppie di fatto eterosessuali, a maggior ragione nessuna rilevanza giuridica pubblica potrebbero avere le coppie omosessuali che, nella definizione di cui alla proposta Grillini, (cioè «l’accordo – risolvibile in qualunque momento; cfr. art. 16 – tra due persone, anche dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune» art. 2) rientrano, a pieno titolo, nei Pacs.
Per cercare un fondamento giuridico a questa figura sono invocati i principii costituzionali dell’art. 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ») e dell’art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religioni politiche, di condizioni personali e sociali »); in base ad essi l’ordinamento dovrebbe garantire anche agli omosessuali conviventi la possibilità di accedere al matrimonio, o comunque un riconoscimento del loro legame affettivo sub specie iuris.
Nessuno, certo, potrebbe impedire ad un gruppo di persone legato da comuni interessi (e, dunque, anche persone omosessuali) di dar vita ad associazioni rette da regole proprie e atte a fornire ai singoli sostegno morale, economico, ecc. (con il solo limite di non perseguire finalità ed interessi contrari all’ordine pubblico). Ma, intanto, è legittimo chiedersi in base a quale principio si decide di limitare a due soggetti soltanto l’accesso a questa «formazione sociale» del patto civile? Perchè, ad esempio, seguendo il ragionamento dei proponenti, il rapporto «di fatto» poligamico non potrebbe assumere la forma del Pacs?
Peraltro, tra le varie formazioni sociali esistenti ve n’è una del tutto particolare che, per la sua obiettiva rilevanza sul piano degli interessi generali (in quanto presiede istituzionalmente alla nascita, allo sviluppo e formazione di nuovi individui della specie umana), non poteva essere lasciata alla mercè della regolamentazione privata ed è, quindi, tutelata con specifiche norme dalla costituzione: l’istituzione della famiglia, anteriore allo stato e comune ad ogni cultura anche precedente al cristianesimo (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea), nonchè «cellula primaria» (e quindi fondamentale) su cui si basa una società ordinata (cfr. art. 16 Dichiarazione universale diritti umani, New York 10.12.1948).
Se non si riconoscesse alla famiglia la sua diversità ontologica rispetto ad ogni altra formazione sociale ci si porrebbe in contrasto proprio con quel principio costituzionale di uguaglianza invocato, che impone di riservare uno stesso trattamento a situazioni eguali e, quindi, un trattamento differenziato a situazioni diseguali; (cfr., per tutte, Corte Costituazionale 29.03.1960, n. 15).
Il diritto fornisce, infatti, alle parti molteplici flessibili strumenti (negozi e contratti) per regolare nel tempo, sotto il profilo giuridico, i loro rapporti ed interessi di vario tipo, ma non può, solo al fine di soddisfare particolari aspirazioni di taluni, dar vita a nuove figure giuridiche, da equipararsi alla famiglia, cui non corrispondano quei rilevantissimi interessi sul piano dell’ordinamento civile.
Il diritto, giova ribadirlo, non è solo l’esito finale del processo di produzione delle leggi, come, invece, affermato dalla scuola della cd. «teoria pura del diritto» (Hans Kelsen), altrimenti le leggi nazionalsocialiste, in quanto prodotte da competenti organi legislativi, tra l’altro democraticamente eletti, non avrebbero potuto essere sottoposte a giudizio da alcun Tribunale Internazionale dei diritti umani (all’epoca di Hitler, peraltro, non ancora istituiti).
Quello sulla «famiglia», pertanto, non è affatto un dibattito che vede impegnate posizioni confessionali, da un lato, e posizioni di tipo laico, dall’altro, alla stessa stregua di un dibattito che abbia per oggetto i diritti fondamentali dell’uomo (alla vita, alla libertà religiosa, di associarsi liberamente, di iniziativa privata ecc.); è una questione vitale di sopravvivenza di una civiltà.