Il Papa alla Sapienza, una lezione di illuminismo

di Gaspare Muradocente di filosofia Università Urbaniana

Si sono spenti ormai i fari dei media sull’episodio del mancato discorso di Benedetto XVI all’Università della Sapienza di Roma, ed è pertanto possibile gettare uno sguardo più sereno, e soprattutto «accademico», sul significato di quell’«allargamento degli orizzonti della ragione» proposto da Benedetto XVI non solo nel suo magistero, ma in tutti i suoi scritti, fin da quando era professore all’Università di Monaco. E scopriamo allora, forse con sorpresa per quanti ritengono il magistero di Benedetto XVI alleato di una visione fondamentalista della fede, che viceversa viene proposta una così stretta alleanza tra la fede e la ragione, che essa viene denominata esplicitamente come esigenza di un «nuovo illuminismo». È importante sottolineare questo termine e il significato che Benedetto XVI gli attribuisce: esso non significa solo, kantianamente, «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità» intesa come «incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro»; ma indica soprattutto un «sapere aude» capace di riconoscere tutte le dimensioni del logos dell’uomo, compresa la sua apertura alla dimensione etica e religiosa.

È possibile riconoscere in questa accezione di illuminismo anche l’influenza di Jürgen Habermas, il pensatore contemporaneo che ha voluto confrontarsi esplicitamente con l’allora teologo Ratzinger sul tema del rapporto fede-ragione nel mondo secolarizzato (cfr J.Habermas-J.Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G.Bosetti, Marsilio, Venezia 2005).

Il Dio dei filosofi e gli dei delle religioni Ma «illuminismo» significa per Joseph Ratzinger soprattutto l’esercizio del logos nella ricerca della verità, che ha avuto la prima origine nel mondo greco, ha ottenuto la sua consacrazione con le scelte culturali della Chiesa primitiva, ed ha continuato ad esercitare i suoi influssi nella modernità, tanto da poter giungere alla conclusione che lo stesso illuminismo storico, nonostante la sua istanza antireligiosa e anticristiana, è un frutto del cristianesimo e dell’alleanza che fin dagli inizi esso ha stretto con il logos. Già nel contesto della cultura antica – scriveva il teologo Joseph Ratzinger nella celebre Introduzione al cristianesimo (tr. it. Queriniana, Brescia) – «il cristianesimo primitivo fece con piglio audace e risoluto la sua scelta, la sua decantazione, optando per il Dio dei filosofi contro gli dèi delle religioni… Così facendo, la chiesa primitiva buttava decisamente nella spazzatura l’intero cosmo delle antiche religioni, considerandole un ammasso di imbrogli e di belle ma inconsistenti fole, e spiegando la sua propria fede così: quando noi parliamo di Dio, non intendiamo e non veneriamo nulla di tutto questo; adoriamo invece unicamente l’Essere stesso, quello che i filosofi hanno intravisto come il fondamento d’ogni essere, come il Dio imperante su tutte le potenze: solo questo è il nostro Dio… La scelta così presa comportò l’opzione per il “lógos” contro ogni sorta di “mythos”, la definitiva demitizzazione del mondo e della religione». In altri termini, il cristianesimo ha operato nei confronti della cultura antica, e poi lungo tutto il corso della sua storia, una profonda opera di «demitizzazione» in nome della verità del logos, analoga alla demitizzazione operata in Grecia dalla filosofia (Senofane, Socrate, Platone), ovvero quella del «movimento del “lógos” contro il “mythos”, così come si era andato svolgendo ad opera dello spirito greco nell’illuminismo filosofico, e che avrebbe infine dovuto necessariamente condurre all’abbattimento degli dèi», corrispondente, nel mondo ebraico, alla fede dei profeti nei confronti delle religioni orientali. Una demitizzazione, quella della filosofia e poi del cristianesimo primitivo, che «dava tutta l’impressione d’una irreligiosità, sembrava un rinnegamento della religione, e quindi ateismo bell’e buono». Non è un caso che Socrate venne condannato per «ateismo», così come i primi cristiani: «Voi, scriveva san Giustino, ci condannate come atei perché non crediamo ai vostri falsi dèi». «E invece – continua Benedetto XVI – nel sospetto di ateismo col quale dovette battersi il cristianesimo primitivo, si riconosce chiaramente il suo orientamento spirituale, la sua opzione decisa, che scarta inesorabilmente la religione del suo tempo ridotta a mera consuetudine priva di verità, per aderire risolutamente alla verità dell’essere».

Ritorna sovente, negli scritti di Benedetto XVI, un’ espressione grandiosa di Tertulliano, che sintetizza bene questa scelta irrevocabile del cristianesimo nei confronti del logos: «Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (De virginibus velandis, I,1 ). In questa audace espressione è racchiuso il fondamento teologico dell’«illuminismo» cristiano sostenuto da Benedetto XVI, della sua scelta della verità del logos contro ogni mito, ogni consuetudine acquisita acriticamente; e di conseguenza, anche la scelta della verità del logos contro i «nuovi miti» eretti da quelle espressioni della cultura moderna che hanno trasformato i miti in «ideologie» senza verità e senza etica.

È in questo contesto insieme teologico e filosofico che vanno collocate e comprese anche quelle espressioni del pontefice che hanno suscitato una reazione, paradossalmente, persino in chi crede di rifarsi all’illuminismo. Innanzitutto la citazione di Manuele II Paleologo, inserita nella Lectio magistralis di Regensburg (testo integrale): «Non agire con il logos è contrario alla natura di Dio»; e questo perché, spiega la Lectio, «Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso»; e in effetti «questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa», anche nelle sue ricadute e nei suoi smarrimenti.

E in secondo luogo la citazione del filosofo agnostico Paul K. Feyerabend, il quale, in base alla più avanzata riflessione sullo statuto epistemologico delle teorie scientifiche, aveva sostenuto che «la Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo». Affermazione questa che sarebbe condivisa dai maggiori filosofi della scienza, perché non vuole significare una condanna di Galileo, ma semplicemente che la concezione galileiana della scienza come oggettiva e inconfutabile conoscenza della realtà è stata superata da tutta la filosofia della scienza posteriore al positivismo; e che di conseguenza, proprio alla luce dell’odierna epistemologia, appare più «razionale» la posizione della Chiesa del tempo, la quale sosteneva, analogamente a quanto farà Wittgenstein nel Tractatus, che «se anche la scienza risolvesse tutti i problemi del mondo, i problemi della nostra vita non sarebbero intimamente toccati».

In altri termini, la Chiesa mostrava di possedere una concezione di «ragione» più ampia e articolata di quella di Galileo. Una valorizzazione che sarà fatta propria dal maggiore filosofo italiano che, sotto molteplici aspetti fu antagonista di Galileo e anticipatore dell’illuminismo, ovvero Giambattista Vico (1668-1744), il quale, proprio per completare la nozione di scienza di Galileo sostenne che la ragione umana ha il compito di indagare un campo più vasto della natura, costituito dalle creazioni spirituali dell’uomo nella sua storia, mediante un metodo che non è quello delle scienze della natura ma, come titola la sua principale opera, è piuttosto quello di una Scienza nuova , ovvero la scienza dell’uomo.

In un articolo apparso recentemente sul «Corriere della sera» (12.2.08), Ernesto Galli Della Loggia ha parlato di «conformismo ghibellino» e di «libertarismo da cubiste» a proposito di tanti intellettuali che, ancorati ad una idolatria della scienza di tipo arcaico, non riescono più a comprendere le nuove istanze di «un’etica pubblica diffusa», imposte da trasformazioni epocali, quali la globalizzazione e l’invasione delle tecnoscienze nella sfera individuale, e di cui oggi solo la Chiesa sembra farsi interprete.

Ragionevolezza più grande Da noi, scrive Galli Della Loggia, «si cercherebbe invano un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard, che animano di dubbi e di domande la discussione in altri paesi»; e questo perché, possiamo aggiungere, questi autori sono espressione di un nuovo illuminismo, che è capace di comprendere l’importanza che un logos pensoso della verità integrale dell’uomo riveste per il futuro della convivenza umana. E questo è appunto il messaggio di Benedetto XVI, il quale chiama anche la Chiesa e le religioni ad «allargare gli orizzonti della ragione», confrontandosi con le nuove sfide del mondo: «La fede – scrive ancora Joseph Ratzinger nel volume Svolta per l’Europa – non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande». Fa parte del «nuovo illuminismo» proposto da Benedetto XVI, la tesi che la ragione secolare e laica è chiamata a confrontarci con le istanze etiche proposte dalla Chiesa e dalle religioni; ma anche che queste sono chiamate ad allargare il loro orizzonte di comprensione prendendo sul serio le domande e le provocazioni che provengono dalla più accreditata e seria cultura contemporanea.

È questo il contesto filosofico e teologico che ha dato origine al discorso non pronunciato alla Sapienza, il quale ne ripercorre sinteticamente le tappe: l’università come luogo della libera ricerca della verità, e come istituzione indispensabile per la società; la necessità di una collaborazione preziosa tra la ragionevolezza delle istanze religiose, proprie della Chiesa, e le ragioni di una cultura secolare che non si racchiuda solo in una «razionalità a-storica», ma sappia comprendere (vichianamente) il patrimonio custodito nelle «tradizioni storiche» e religiose; il ricordo di Socrate, maestro insuperabile dell’illuminismo greco, il quale comprese, come mostra il dialogo Eutifrone, la necessità di appellarsi al logos contro il mythos e soprattutto il profondo legame che unisce la verità alla bontà ed alla giustizia; il riferimento all’etica dell’«argomentazione veritativa» di Jürgen Habermas, a motivo del «fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico»; l’importanza di Tommaso D’Aquino per la Chiesa, a motivo del riconoscimento dell’autonomia della ragione filosofica rispetto alla fede ed alla teologia; e infine l’appello a riconoscere nella fede cristiana, fondata sul Logos, non una nemica, ma piuttosto «una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa».

La lezione di illuminismo di Benedetto XVI si conclude pertanto in un grande appello all’uomo occidentale, erede dell’illuminismo greco e di quello cristiano, affinché la sua ragione non si rimpicciolisca perdendo il coraggio della verità, non si pieghi «davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo», finendo così per divenire disumana. Un appello che vuole essere anche una iniezione di speranza, perché «il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi».