Il Pd e la rappresentanza della cultura cattolica democratica
di Alberto Monaci*
Il rafforzarsi dell’incertezza sulla durata del governo e per alcuni della legislatura sta accelerando processi interni al Partito democratico altrimenti sintonizzati su altre tempistiche. Trovano in ciò, infatti, spiegazione i vari «tendoni» e le varie «stazioni» che in queste settimane animano il dibattito mediatico dei «democrat». Nonché le questioni sull’alleanza a venire, animate dall’esito invero marginale per l’entità numerica dell’elettorato coinvolto delle elezioni in Molise. Risposta, parziale, al reale problema di un partito che nella migliore delle ipotesi (dei sondaggisti) sta ancora dietro di oltre i quattro punti percentuali del dato della sconfitta del 2008.
Parto da qui, dalla perdita di quella vocazione maggioritaria fraintesa, per ragionare su un pericoloso elemento latente nella discussione: la marginalizzazione nel progetto democratico della componente (culturale, politica e di rappresentanza) di quel cattolicesimo democratico, «partito» nel tempestoso mare della seconda repubblica con quel «guscio di noce» che era il Ppi per costruire quella nuova fase dell’esperienza dei cattolici in politica nel solco del primigenio disegno degasperiano (attualizzato poi nelle teorizzazioni morotee).
Era, quella vocazione, lo sviluppo naturale di un percorso di sintesi che dall’Ulivo al centrosinistra con trattino, alla Margherita (in rapporto dialettico numericamente più equilibrato coi Ds), i cattolici democratici avevano intrapreso, convintamente, con gli eredi del Pci impegnati in un processo evolutivo del proprio Dna verso lidi riformisti europei. Una proposta al Paese, che non chiudeva ad alleanze programmatiche, ma sanciva il compimento di un percorso politico-culturale tutto italiano lungo decenni, ambendo peraltro a porsi come interlocutore di altre esperienze democratiche innovative su scala globale che andassero oltre, sviluppandola, la suggestione degli anni novanta dell’Ulivo «mondiale» (e l’attuale situazione economica dimostra quanto utile sarebbe stata questa interlocuzione, oggi assente).
La titubanza, oggi, a riagganciarsi a quella formula ha lasciato il campo ad un’idea di un partito che si dovrebbe vedere collocato in un contenitore transnazionale «socialisteggiante», ancorato ad un’alleanza tripartitica (che si indicherebbe si sinistra, a mio avviso con molta superficialità), con l’auspicio di una collaborazione elettorale (ma quanto programmatica) con il terzo polo o suoi spezzoni. Un progetto a forte tasso di eterogeneità, non tanto di caratteristiche culturali delle sue componenti, ma di progetto. Un bene per quest’Italia così malmessa? Crederei di no.
Gli equilibri immaginati in questo convulso disegno porterebbero ad una «esternalizzazione» dal Pd della rappresentanza del patrimonio culturale e politico del cattolicesimo democratico, producendo un arretramento culturale allo scenario politico nazionale di oltre venti anni. Non sanabile dal riconoscimento di una rappresentanza ai singoli, propria della cultura del Pci, prima, e del Pds. Uno snaturamento, in Toscana, di quel processo originale e autoctono che è stato (e continua ad essere, perché non vi è soluzione di continuità) «Toscana democratica», il buon governo della Regione varato con l’ultima Giunta Chiti, proseguito nel decennio Martiniano, posto ora nelle mani di Enrico Rossi.
L’urgenza del Pd, oggi, è quella di recuperare e completare questa sintesi, non di sopprimerla, archiviando con più o meno soddisfazione (a seconda dei dirigenti!) una pagina importante di storia patria. Per parlare ad una parte di società più ampia di quel 33 per cento del 2008. e superare quella tentazione, sempre presente nella sinistra postcomunista italiana, di mantenersi ancorati alle categorie politiche del ventesimo secolo fagocitando spezzoni di società, politica, cultura.
*è presidente del Consiglio regionale della Toscana. Nel 1995 è stato fra i fondatori del progetto di «Toscana democratica»