Il prete nel pensiero dei Padri della Chiesa
di Carlo Nardi
La storia del ministero cristiano è complessa. Si sviluppa dall’età apostolica in poi, nel confronto con l’unico fondamentale sacerdozio di Cristo, fino a configurarsi nei suoi tre gradi essenziali, – vescovi, preti, diaconi o ministri in genere, come dice il concilio di Trento -, con annessi altri ruoli, in definitiva fondati sulla cresima, dal sacrestano, a chi guida il canto, a chi legge in chiesa, a chi scaccia diavoli, a chi serve la messa, compito dell’accolito, «ordine» tra questi ultimi il più venerando, secondo l’antica Chiesa, perché più prossimo all’eucaristia. Al che si aggiunga la storia dello strutturarsi delle funzioni diocesane e parroccchiali, nonché delle antiche diaconie, una specie di centri caritas, peraltro con molteplici forme.
Si pensi poi alla variegata collocazione dei presbiteri, per esempio di un Origene ( 354), ordinato prete senza il benestare del suo vescovo, o di un san Girolamo ( 420), che la consuetudine iconografica si preoccupa di regolarizzare nel clero romano con tanto di purpureo cappello cardinalizio, comunque tutto dedito, specialmente a Betlemme, più che ad afflittive penitenze, a «scrutare» le amate Scritture e a profondersi in scritti anche pungenti. E anche a far confondere il vescovo di Gerusalemme.
Sono tematiche da affrontare sotto svariati punti di vista. Allo scopo si affaticano interpreti della sacra Scrittura, storici del cristianesimo, della letteratura cristiana antica, grosso modo la cosiddetta patrologia, e della storia delle dottrine, la cosiddetta patristica. Queste discipline s’incontrano, s’intrecciano, si corroborano a vicenda nella frequentazione dei primi scrittori cristiani, i cosiddetti Padri della Chiesa.
Sono particolarmente interessanti gli studi sulla pastorale a tutto campo nelle più grandi metropoli del Mediterraneo antico (Antiochia, Roma, Milano), ora dal punto di vista delle istituzioni (storia della liturgia, della vita quotidiana, per esempio) ora dal punto di vista di particolari pastori d’anime (Ambrogio, Agostino). Non meno importante è ripercorrere la formazione di chiese rurali, pievi e parrocchie. Sono tutti rilievi atti a delineare il ministero sacerdotale, in concreto a illuminare la figura del prete nei primi secoli cristiani.
In effetti, antiche testimonianze raccontano di numerose fughe di fronte a ordinazioni più o meno forzate per l’insistenza di vescovi e popolo. Si ricordi Ambrogio, ancora catecumeno, acclamato vescovo di Milano. Il motivo diventa un luogo comune. Perché tante fughe reali o almeno letterarie? La ricorrenza della tematica sembra un monito severo. È da pensare che invece, spesso e volentieri, succedesse tutto il contrario, che insomma si brigasse per ottenere cariche che sempre più si configuravano come ruoli di potere, sacro, davvero con tutti i crismi, ma non di meno potere. È quanto traspira nello storico pagano contemporaneo Ammiano Marcellino con i primi tratti di anticlericalismo e una buona dose di dente avvelenato verso i cristiani. Certo, dovevano esserci ecclesiastici, e di che livello, a farglielo avvelenare, quel dente.
Nell’opera, ben strutturata, anche curiosa nella traballante giustificazione della sua «trappola» ordita a fin di bene, Giovanni si diffonde sugli aspetti del ministero, specialmente episcopale: predicazione della parola di Dio a tutto campo con scienza e coscienza; capacità di rapportarsi con i singoli e nei vari ambiti per illuminare, correggere, esortare, incoraggiare; consapevolezza della grandezza dei misteri ricevuti in consegna con tratti significativi sulla concreta realtà dell’eucaristia, come sul ministero della penitenza e dell’unzione degli infermi: il tutto da viversi con una intima motivazione, l’amore fraterno in relazione alla vita eterna o, meglio, in rapporto a Cristo conoscituto e amato, negli ambiti specifici di fede, di culto con la centralità eucaristica, di vita cristiana a tutto campo. In una parola, la carità pastorale.
Giovanni si rifà alle insistenti parole di Gesù «mi ami, mi sei amico», a Pietro turbato specialmente per quel «più di costoro» (Gv 21,15-17). L’amore per Gesù è la sostanza della carità pastorale per i fratelli e sorelle che Gesù ama fino al dono totale di sé (Il sacerdozio II, 1). Cristo intende comunicare tratti di amore sponsale per la Chiesa, suo corpo, a chi chiama ad un amore simile al suo per il suo stesso corpo.
Quello che il Crisostomo da diacono aveva delineato nel suo trattato ampio, tornito ed elegante, lo si percepisce nella sua predicazione: anzi, lì più che altrove è vissuto con affetto, come nella Omelia pronunciata prima dell’esilio dalla sua sede episcopale a Costantinopoli (anno 404). Lì la verità del corpo mistico si fa vita concreta, pulsante, appassionata.
«Sia impegno d’amore pascere il gregge del Signore», dirà di lì a poco Agostino (Su Giovanni 123, 5), commentando le tre domande di Gesù all’apostolo (Gv 21,15-17). Si direbbe, Agostino con il Crisostomo: con la Chiesa greca c’è quella latina, accomunate nell’indicare nella carità il segreto interiore della vita dei loro ministri, un amore doveroso e gioioso.
Ambrogio ( 397) è figura indubbiamente autorevole nella delineazione del prete latino. È sua una breve lettera ai chierici milanesi (Lettere IV,17:81), che scrive probabilmente tra il 393 e il 394, durante la sua assenza da Milano per non trovarsi costretto a ossequiare e in certo modo legittimare il sovrano usurpatore Eugenio. Nella lettera, spedita da Bologna o Faenza o Firenze, esorta alla fedeltà all’«ufficio». La parola e il concetto di officium nella sensibilità romana erano attinenti alla coscienza personale e al bene comune, unificati nel perseguimento del proprio dovere. Ambrogio aveva meditato Gli uffici o I doveri, come si voglia tradurre, di Cicerone e se ne era ispirato, ora confermando ora correggendo ora assumendo il pensiero morale di matrice stoica per elaborare il suo Gli uffici o I doveri dei ministri, ampio trattato di spiritualità sacerdotale e pastorale ministeriale. Ambrogio è intimamente pervaso da un alto senso della dignità della carica. Nelle parole che pronunciò a Firenze durante le feste pasquali del 394 in occasione della consacrazione della basilica voluta dalla munifica Giuliana e da lui detta Ambrosiana, la futura San Lorenzo, si indirizza a un giovane di questo nome, il figlio della donatrice, votato alla lettura della parola e, come il padre defunto, all’altare, e gli comunica tutta la gravità del ministero a cui si prepara.
Certo anche lui, come Ambrogio, fu ordinato prete con le buone o con le cattive. Se la sua sconfinata produzione letteraria va ben oltre la cura pastorale di Ippona, le è sempre in qualche modo connessa per le risonanze che le questioni dottrinali avevano nel vissuto del popolo cristiano e, d’altra parte, proprio la realtà pastorale è l’ambito che obbliga o offre spunti alla teologia. Anche il teologo nell’età patristica è organicamente impegnato nella pastorale, a sua volta teologicamente motivata e illuminata. A proposito, di Agostino vengono in mente La dottrina cristiana, trattato sulla predicazione, e La catechesi agli ignoranti, dove addita a uno scoraggiato diacono catechista nell’amore gioioso il segreto di una comunicazione vitale della fede. «Sia impegno, ufficio d’amore pascere il gregge del Signore» (sit amoris officium pascere Dominicum gregem): Agostino (Su Giovanni 123, 5), nel commentare la triplice confessione di amore di Pietro (Gv 21,15-17), oltre a far eco a Giovanni Crisostomo, si mostra discepolo del romano Ambrogio. Lo fa pensare mediante la parola «ufficio» con quanto di fedeltà e dedizione senza condizioni comporta. Non senza un perché il suo biografo Possidio, a conclusione dell’opera (Vita di Agostino 30), riporta per disteso una lettera scritta da Agostino poco prima della morte in Ippona assediata dai vandali. Il suo esempio di vescovo, in vita e in morte, suffragava le severe parole: non doversi allontanare il ministro di Dio dal suo popolo, sua sede naturale e doverosa, finché questo non fosse più in pericolo di mancare dei mezzi della salvezza eterna. Così il buon capitano che non abbandona la nave prima d’aver messo in salvo passeggeri ed equipaggio.
È possibile trovare nei Padri parole come quelle di Gesù durante agli apostoli «figliolini» durante la cena (Gv 13,33). C’è anche il caso di rintracciarvi echi dei saluti di Paolo ai presbiteri della chiesa di Mileto all’imbarco di Efeso, forse anche della loro commozione nel rendersi conto che quel commiato era un vero e proprio addio (At 20,37-38. cf. 17-38). E sempre la parola del pastore, di per sé, vuole e dev’essere assoluto riferimento a Dio.