Il prete, un «uomo esposto»

Vorrei fare alcune considerazioni sul prete, il suo ministero, la sua vita. Dopo mesi di silenzio, l’occasione mi è fornita dalla Giornata diocesana fiorentina per il Seminario dell’8 gennaio che, per la prima volta dopo tredici anni come rettore, ho vissuto nella preghiera dall’esterno.

Preghiera ma anche riflessione, suscitata quest’ultima anche dal bell’intervento di Leda Minocchi sul giornale dell’11 dicembre scorso con il titolo «Il prete che cerchiamo». Quando l’ho letto, quell’intervento mi ha colpito molto.Già, come cristiani, come comunità diocesana di fedeli, che prete cerchiamo? A mio modesto avviso ed anche in base alla mia esperienza in Seminario, conviene chiederselo e chiederselo sempre di più nei tempi frastagliati di oggi.Non è un interrogativo scontato, almeno per due considerazioni. Il prete, e in particolare il prete giovane, oggi rispetto al passato non svolge più la sua attività in un ruolo «protetto», che si muove cioè all’interno di parametri precisi e strutture tranquille, assestate e per questo in qualche modo portanti. Al contrario, appena uscito dal Seminario e poi via via in seguito, il prete è un «uomo esposto»: dinanzi alla complessità della vita e alle situazioni difficili che si presentano, in un impatto immediato, perfino violento. Personalmente ho sempre vissuto con timore questo passaggio dalla vita tutto sommato tranquilla del Seminario, alla vita esterna, nella sua anche brutale concretezza, e ne ho sempre fatto oggetto di richiamo nella formazione dei seminaristi. Qualcuno potrebbe ben dire: bisogna che i preti siano preparati a questo! Ma un conto è la preparazione, altra cosa è la realtà. Sono richieste doti di saggezza, di equilibrio, di maturità, che nel migliore dei casi crescono e si sviluppano nella vita, ma che sono generalmente carenti in un venti-trentenne di oggi: chi ha figli o nipoti penso possa facilmente concordare.

D’altro lato, ed è la seconda considerazione, le necessità della vita pastorale, i numerosi impegni, le iniziative da creare e sviluppare per far fronte al bisogno di evangelizzazione, di catechesi, di impostazione di una seria liturgia e via dicendo, portano ad una parcellizzazione molto forte nella vita del prete, ad uno spezzettamento delle sue attività, inevitabilmente, spesso, a un disperdersi. Il ministero spesso si traduce, e senza colpa!, in una corsa troppo affannosa fra impegni, riunioni, incontri con le persone. Difficile realizzare il senso unitario della propria vita. Talvolta ne deriva una caduta di senso o di significato del proprio impegno, con conseguenze che possono essere gravi.

So bene che di fronte a tutto questo, e proprio per superare tutto questo, nella vita del prete deve esserci la centralità dell’Eucarestia quotidiana, il dono e l’impegno della preghiera che ritma le ore del giorno, ci sono tutti i doni della Grazia e tutti gli strumenti di una vita spirituale seria e ben impostata. Sono le realtà che il Seminario insegna ed alle quali avvia.

E tuttavia insisto nell’invito a guardare la realtà complessa che ci attornia. La realtà del mondo che chiede sempre di più un prete «esperto di umanità» per la complessità delle situazioni che normalmente la gente vive, e la realtà della Chiesa che domanda un prete capace di vivere nel profondo di sé la tensione di percorsi nuovi di evangelizzazione e di annuncio della buona notizia del Regno: tutto questo in un linguaggio capace di parlare ma anche di essere ascoltato, capace di incidere nel cuore e, ripeterò ancora, nel vissuto concreto delle persone.

E dunque allora: in questa realtà, che prete noi cerchiamo? Nel suo intervento Leda Minocchi lamenta «un vuoto di persone consistenti in se stesse, mature in umanità e in esperienza di fede profondamente vissuta, armoniche sul piano affettivo, forti nella prova, piene di speranza». Pensando al volto di diversi preti giovani, che mi fanno dono della loro amicizia dopo anni vissuti insieme, debbo dire in verità che vi riconosco una ricchezza di umanità giovanile, di entusiasmo e sì, anche di speranza capace di incidere e dare una bella testimonianza del Signore, per cui il quadro non è così totalmente brutto. Tuttavia concordo che bisogna riflettere, e concordo pienamente sul fatto che «abbiamo bisogno oggi come non mai, di trovare nel prete l’immagine del Cristo, una persona, cioè, che incontra il cuore degli uomini e delle cose, ma, soprattutto, l’uomo vero, di carne, ossa e sangue, che conosce la fatica d’anima di essere cristiano e santo, custode geloso della grande chiamata, testimone luminoso di un Vangelo vissuto».

Non si tratta oggi per il prete di «cose da fare», si tratta, nelle difficoltà del presente, di «vita» e di impostazione di vita: si tratta di modi di essere e di porgersi, di ascoltare e di parlare, di avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù secondo la bella espressione paolina. Personalmente detesto l’espressione «operatore pastorale» applicata al prete, e bisogna stare attenti al linguaggio e alle parole che si usano e che trovo spesso in riviste specializzate. Il prete è «anche», se si vuole, operatore pastorale, ma è ben di più nel mistero di Dio, della chiamata, della sua propria vocazione!

Possiamo tirare fuori questo «di più», o sogno, o ardisco troppo? Quel di più che poi è il solo capace di creare fascino, perché è il «di più» di Dio, di quel Pane spezzato quale significato profondo della vita del prete, del Dono infinito di cui vive e che è chiamato a trasmettere.Occorre parlare di più del prete in termini di «esistenza», degli stili di vita che la possano contrassegnare, delle situazioni che possono consentire un’esistenza buona, bella, felice, secondo l’espressione che i seminaristi di Firenze qualche anno addietro hanno sentito illuminata da fr. Enzo Bianchi a Bose. Forse «la Chiesa è particolarmente provata oggi nel suo sacerdozio» come afferma Leda Minocchi? Chiediamocelo. Abbiamo bisogno di preti realizzati e felici, per questo capaci di donare parole di speranza e di fiducia al cuore delle persone, chiunque esse siano.Ecco intendevo solo aprire un dibattito e suggerire che questi interrogativi siano tenuti presenti, auspicabilmente anche ai livelli alti della Chiesa. Ed intendo anche allinearmi all’invito che il nuovo rettore del Seminario di Firenze, don Stefano Manetti, ha recentemente rivolto ai parroci, con una sua lettera: l’invito a collocare una «giornata del Seminario» nelle Comunità parrocchiali, perché il Seminario non sia dimenticato, piuttosto sia alimentato dalla preghiera e dall’amore condiviso di tante persone buone che vivono nelle Parrocchie. Il Seminario ha bisogno di vivere anche di questi interrogativi e delle risposte che possiamo cercare insieme.Don Fabrizio Porcinai

L’autore di questo intervento, mons. Fabrizio Porcinai, è stato per molti anni rettore del Seminario di Firenze. Adesso è vicario episcopale per l’economia e coparroco della Basilica fiorentina di San Lorenzo. L’intervento di Leda Minocchi, al quale fa riferimento, è stato pubblicato nella pagina delle lettere nel n. 45 di Toscanaoggi (11 dicembre 2005).