Il vescovo Rahho, una vittima della guerra non dell’islam
Lo scorso 13 marzo abbiamo avuto notizia della morte di mons. Faraj Rahho vescovo cattolico caldeo di Mossul. Qualcuno ha indicato il luogo ove era stato sepolto il corpo del vescovo sessantasettenne rapito il 29 febbraio. Le cause della morte non sono ancora note; probabilmente le precarie condizioni di salute del presule non hanno sopportato lo stress del sequestro. Indubbiamente anche se non è stato tecnicamente ucciso, il rapimento può essere considerato la causa della sua morte. Questa tragica notizia è stata accolta con un allarmato grido di preoccupazione per i cristiani che abitano quelle terre. In pericolo da sempre, le difficoltà del momento li espongono ancor più al fanatismo islamico. Qualcuno ha anche espressamente iscritto l’uccisione di mons. Rahho nel contesto di un’attività di «pulizia religiosa» condotta da gruppi jihadisti che vogliono bonificare il nord dell’Irak. Conseguentemente il vescovo appare una vittima del jihad e si invoca perciò un più fermo atteggiamento di contrasto verso l’islam.
La questione è delicatissima. Lo scontro di civiltà profetizzato da Huntington si aggira come uno spettro su queste analisi e finisce per rendere verosimile qualsiasi eccesso, trascinando la voglia di capire dentro gli schemi dello scontro fra civiltà. Che peraltro mostra sempre più il volto di uno scontro fra ignoranze.
Per evitare che tali semplificazioni nascondano la realtà dei fatti, vorrei ricordare la morte di mons. Rahho analizzandola da un punto di vista meno agguerrito, e tuttavia dentro lo scenario bellico che la concerne. Anche il card. Martino ha dichiarato che «se non ci fosse stata la guerra a Saddam Hussein non staremmo a piangere tutti questi morti. La guerra [ ] travolge i cristiani, benché iracheni, in quanto individuati come quinta colonna dell’invasore». Considerarlo vittima della guerra piuttosto che dell’islam gli restituisce quel ruolo di padre che fra mille e mille difficoltà testimonia la fedeltà ad una secolare vocazione minoritaria. Mons. Rahho non aveva ascoltato i suggerimenti di chi, preoccupato per la sua salute, gli consigliava di prendersi cura di sé e si era testardamente fermato a Mossul, ove viveva insieme ad un gruppo di disabili. La sua mortr non ci affida quindi la responsabilità di combattere l’islam, piuttosto la guerra.
Abbiamo perciò il dovere di domandarci come uscire dal tunnel irakeno. Per farlo occorre analizzare i fatti evitando la logica di contrapposizione che semplifica tutto e alla fine impedisce di capire. Proviamo a vedere qual è lo sfondo. Tutti ricordiamo quale sia stata la politica originaria della Coalizione che entrò in Irak per destituire Saddam Hussein: ristabilire un equilibrio etnico religioso sostenendo sia i musulmani sciiti (ossia, fedeli islamici appartenenti alla corrente al potere in Iran) sia i sunniti (ossia appartenenti alla maggiore corrente islamica del mondo arabo) dissidenti rispetto al partito Baath di Saddam Hussein (la dittatura era laica, tuttavia Saddam era sunnita). In sostanza si è agito approfondendo le divisioni religiose e richiamando ulteriori differenze etniche tribali: ad esempio dando più spazio ai sunniti del sud rispetto a quelli del nord, appartenenti all’etnia di Saddam che a sua volta aveva avviato una politica di emigrazioni forzate di sunniti nel nord del paese, per contrastare il pericolo curdo.
La questione curda appare perciò centrale, sebbene sia spesso considerata con poca attenzione. Il popolo curdo è un grande popolo senza nazione. Almeno 20 (qualcuno dice 40) milioni di persone nella regione geografica del Kurdistan, che le guerre e le paci del passato hanno finito per dividere dentro tanti (troppi) confini statuali: Turchia, Irak e Iran, ma anche Siria e Armenia (la diaspora ha poi portato gruppi significativi anche in Libano e Azerbajan). I curdi non sono arabi (benché molti oramai siano arabizzati). Hanno una loro lingua ed oggi appartengono a diverse religioni, sebbene siano in maggioranza islamici. Nella zona settentrionale dell’Irak (ossia, quella meridionale del Kurdistan) sopravvive una forte presenza di Ayzida (oltre mezzo milione di persone). Si tratta di un vecchissimo culto preislamico: i sunniti li considerano «adoratori del diavolo». Il luogo centrale della loro religione è a Lelish, circa 60 km a nord di Mossul. Il regime baathista com’è noto avversava questa minoranza (ricordiamolo: pure con l’uso di armi chimiche) e aveva provato a ristabilire un equilibrio etnico favorendo il più possibile l’insediamento di sunniti nelle zone curde del paese. Fedeli oppositori del regime di Saddam i curdi hanno sostenuto molto la Coalizione. In cambio hanno ricevuto la possibilità di insediare nel Kurdistan irakeno una sorta di Stato indipendente. Infatti oggi la zona di Mossul (ove è avvenuto il rapimento) è controllata dalle milizie curde (peshmerga).
Nel frattempo la politica ha cambiato direzione. L’Iran è avvertito come un pericolo reale e la forza sciita in Irak rappresenta un problema cui si cerca di porre rimedio sostenendo nuovamente i sunniti. La frittata però è stata fatta. Gli irakeni hanno cominciato a percepire la necessità di ricostruire il paese attraverso il consolidamento di una comune identità islamica che superi la divisione sciiti/sunniti; non acconsente più facilmente ai tentativi di divisione religiosa e cerca di ricostruire una debole, ma comune, identità nazionale. Un paio d’anni fa durante una festa sciita a Baghdad si sparse la voce di un imminente attentato kamikaze. Nacque un parapiglia (oltre 1.000 sciiti restarono uccisi nella calca): la gente fuggì ammassandosi per attraversare un ponte sul Tigri; qualcuno scelse di farlo a nuoto. Dall’altoparlante della moschea sunnita partì una richiesta di aiuto. Un adolescente, Othman al- Ubeyedi, si gettò nel fiume, aiutò almeno quattro persone, ma alla fine morì. Othman fu additato dalla stampa irakena come un eroe dell’unità nazionale: «ha mostrato che siamo tutti fratelli» dichiarò il primo ministro sciita, Ibrahim al-Jaafari.
La crescita di un simile senso di identità islamica ha certamente danneggiato le altre minoranze, specie quella cristiana. Il risveglio islamico fomentato dalle truppe di liberazione/occupazione ha provocato un esodo sensibile della minoranza cristiana, sempre fortemente tentata di lasciare il paese. A Baghdad oggi non ci sono più cristiani. Chi ha potuto è scappato in Europa o in America, gli altri in Siria o nel nord, appunto nella zona di Mossul, culla dello storico insediamento cristiano caldeo. Stretti fra curdi e sunniti i caldei non hanno mia avuto vita facile, ma va detto che sotto la dittatura baathista i cristiani godevano di una relativa libertà (Tariq Aziz, il vice di Saddam Hussein era un cristiano caldeo), memoria della regola ottomana del millet.
La politica etnica della Coalizione ha quindi aggravato la situazione dei cristiani. In questo contesto trovano acqua di coltura anche fanatici jihadisti, che come sappiamo sono senza confini. Tuttavia le ripetute aggressioni a danno dei cristiani, ed in modo particolare i rapimenti dei preti, possono essere ascritti ad una più realistica logica estorsiva. Significa colpire gruppi socialmente isolati che vantano però contatti con l’Occidente ricco, in grado di pagare i riscatti magari utilizzando canali connessi alla presenza militare straniera. Queste logiche estremiste sono il risultato della diffusione di tratti distorsivi della realtà espressa conseguenza della guerra, delle sue logiche di divisione, e delle congruenti (errate, come si vede) scelte di dominio del territorio. Noi da lontano possiamo aiutare parlando dell’Irak uscendo dagli schemi logori ed inefficaci della contrapposizione fra le forze del male e quelle del bene. Per prendere il testimone di mons. Rahho non dobbiamo armarci contro l’islam, ma scegliere la comprensione e la compassione.