Laici cristiani e fede

L’intervento del professor Pietro De Marco, pubblicato in sintesi nel numero del 6 gennaio scorso e integrale sul nostro sito (Teologia e fede dei semplici), ha suscitato la lettera (La solida fede delle persone semplici) di don Luca Mazzinghi, pubblicata integralmente sul numero del 20 gennaio. I due scritti hanno a loro volta suscitato altri interventi di amici e lettori di Toscanaoggi. Ne è scaturito un dibattito del quale ci sembra giusto e interessante, oltre che doveroso, rendere conto a tutti gli altri lettori. Per questo abbiamo deciso di dedicargli due intere pagine del settimanale, sapendo però di non potere lo stesso accontentare tutti coloro che hanno scritto (e sono molti). Di fatto, oltre a concedere una replica a De Marco, abbiamo scelto tra i primi interventi arrivati, lasciando così aperta la possibilità di dare spazio successivamente anche ad altri. Come giornale, infatti, ci teniamo ad essere luogo di confronto su tutti i temi, ma soprattutto su quelli che riguardano l’uomo e le sue aspirazioni più alte. Per questo ci sembra interessante discutere sui laici cristiani e la fede, anche perché, a nostro giudizio, i primi due interventi, quello di De Marco e quello di Mazzinghi, pur arrivando a soluzioni diverse, partono entrambi dall’interrogarsi su come rendere più robusta la fede all’interno del Popolo di Dio. Un tema non da poco, quindi, che meriterebbe ben altri spazi, ma al quale anche un giornale come il nostro può dare un contributo di riflessione.

Quei praticanti di diversa intensitàCaro Direttore, don Luca Mazzinghi conosce bene la mia stima per lui. Risponderò anch’io con franchezza. Se lasciassi prevalere in me un filo di malizia non replicherei del tutto alla sua lettera polemica (ben vengano!) del 20 gennaio u.s.; la lascerei semplicemente alla valutazione del lettore, chiedendogli solo di leggere per intero il mio articolo del 6 gennaio (su Toscanaoggi on line). Saltano agli occhi di chiunque sia l’eccesso di argomentazione politica (Pio X e il laicato subalterno, chiesa e fascismo, Baget Bozzo e Berlusconi!) che non ci porta molto avanti, sia formule come quella della «Trascendenza [che] si è “svuotata” in Cristo nella nostra debolezza umana», o quella finale: non tanto “dogma e predicazione” quanto, piuttosto, “Vangelo e vita”. Enunciati suggestivi che un tempo si sarebbero circoscritti come «spirituali» e non propriamente teologici, e si sarebbero formulati comunque con cautela perché ambigui. Oggi rischiano di essere proposti e recepiti come formule tout court autorevoli, mentre dovremmo avvertire (e don Luca lo farà certamente col suo popolo) che la Trascendenza divina non si dissolve nella kénosis del Figlio e che questo è il cuore del mistero trinitario. La Trinità non si aliena o smarrisce, per dire così, nell’umanità del Figlio, tantomeno nella «nostra debolezza» (come potrebbe salvarci?); né la Trascendenza si risolve nella Vita, che è teologia alla Vito Mancuso.

La formula «Vangelo e Vita» ha, poi, la modestissima dignità di luogo comune predicabile, buono per sollecitare (con molto ritardo sul primo Novecento) la fede come esperienza immediata e concreta, ma infine esperienza di che? Se tra «Vangelo e Vita» non si include né Tradizione, né Chiesa né intellectus fidei, neppure la severa disciplina delle tradizioni Riformate, il «Vangelo» sarà alla mercè delle nostre opinioni e «vitali» prese di posizione. Se, va da sé, non dubito della rigorosità di don Luca non sarei così sicuro – e così suppongo molti lettori di Toscanaoggi – che il laicato «alla scuola della Parola e del Concilio», che egli giustamente difende, sia al di sopra di questi problemi.

Mi preme tuttavia chiarire un punto del mio testo. Il lettore attento avrà visto che non oppongo, come può invece sembrare dagli argomenti di don Luca, teologia e fede dei semplici. Non li oppongo in nessuno dei sensi possibili; vedo, al contrario, forti ma divergenti alleanze tra laicati, sensibilità credenti e teologie. Si tratta di una geometria un po’ complessa, perché – diversamente dallo stereotipo di un popolo di Dio in conflitto con la teologia romana – sono talora dei comuni credenti ad opporsi (preferisco dire: ad opporre umile resistenza) a stili teologici e pastorali di genere «moderno». Sul versante della fede diffusa verifichiamo resistenze a quello che un conoscente definiva «il dire cose non chiare» (da parte di un parroco), per cui aveva cambiato parrocchia; intendeva quel troppo ripetere «la Chiesa dice …. ma….», «siamo abituati a credere …, tuttavia …» e simili. Un consiglio parrocchiale ne sarà anche estasiato, ma il popolo (che è numeroso) ne è spesso disorientato e contrariato.

Questo universo di praticanti di diversa intensità (sì, dal messalizzante discontinuo al «fervido popolo di Radio Maria»!) forse non corrisponde, o corrisponde solo in parte, al «laicato maturo e formato alla scuola della Parola e del Concilio» di cui scrive don Luca. Ma – cosa importante – non per questo è stato lasciato solo: una parte del clero e dei religiosi, una minoranza di teologi, alcuni Movimenti ecclesiali, il Magistero anzitutto, e molta dedizione alle opere (dai volontariati al Movimento per la Vita), lo hanno protetto nei decenni.

Tale implicita lettura del Concilio nella continuità con la vita cattolica precedente, tale «resistenza» in una fede e una pratica non del tutto «aggiornate» e variamente radicate (tradizioni territoriali, identità e sensibilità familiari, riflessione personale), sono parti costitutive dell’eccezione italiana. È per questi laicati, anzitutto, che esiste in Italia, di fronte al paradigmatico disastro della cattolicità francese, ancora una complexio catholica e una chiesa di popolo (e qui si colloca probabilmente la «vecchina» che don Luca evoca affettuosamente).

Credo che non si debba, per reattività, sottovalutare il mio allarme. Qual è la fides quae, insomma cosa crede oggi, proprio l’altro laicato? Quello «qualificato», quello «consapevole della pluralità di teologie», «capace di discernere il ruolo e i limiti del magistero» (complimenti! non è poco), «consapevole della propria libertà ecc.», quali sono i suo autori – poiché certamente non legge Joseph Ratzinger, e non per la ragione sofisticata che come Papa non sarebbe più teologo, ma perché a questo laicato per decenni il card. Ratzinger è stato additato come nemico –? E cosa credono i teologi e intellettuali di questo laicato? È più una domanda da teologo che da sociologo, ma riguarda fatti.

Mi confermo di anno in anno nella convinzione che la sensibilità dei «cattolici adulti» (appunto: quelli «liberi», «consapevoli», «capaci di discernere» ecc.) viva una coazione a ripetere le diagnosi e le attese degli anni Sessanta, per cui ogni diversa diagnosi del presente (e del passato) appare «tradimento del Concilio». Ma gli uomini del Concilio avevano una formazione classica (niente «svolta linguistica»), e avevano di fronte degli umanesimi, in violenta collisione con la Chiesa, ma «moderni» (non ancora postmodernamente «decostruiti»). La reformatio agiva su terreni solidi; aveva profili e confini. Oggi la ripetizione (dopo quasi mezzo secolo!) delle «istanze conciliari» rischia di infierire su credenze e istituzioni provate da un lungo trauma, ma vive. Cosa vale eccitare alla astratta «realizzazione del Concilio» dei credenti senza storia della Chiesa – se non qualche rozzezza su Crociate e Inquisizione indotta dai media –, dei lettori postmoderni della Lettera a Diogneto, illusi dal mito della «debolezza» che salva, quasi una parodia della Cristologia? È necessario, per la cultura cattolica in ricostruzione, contemplare in Luigi Lombardi Vallauri «il tormento e la passione di un’intelligenza che va cercando la sua libertà», come scrive da par suo l’amico don Jacopozzi? O dobbiamo, piuttosto, favorire la conoscenza di forti approdi alla fede, lo studio di ragioni e forme della katholische Glaubenswelt (Il mondo della fede cattolica, come l’editore italiano intitola il grande libro, questo sì raccomandabile, del card. Leo Scheffczyk)?

Sarà opportuno riprendere a guardarsi attorno e nella Chiesa, senza nostalgia per una stagione conclusa da un pezzo (parlo del postConcilio, in senso non meramente cronologico), che ci permette non da oggi di apprendere dai suoi errori e limiti. Non vi è «mancanza di rispetto» per alcuno chiedere a noi stessi più consapevolezza.

Pietro De Marco Cattedra di Sociologia della religione – Dipartimento di Studi sociali – Università degli Studi di Firenze Un popolo di fedeli non inquinatodalla teologia senza trascendenzaCaro Direttore, riguardo alla disputa De Marco–Mazzinghi, sono d’accordo con quanto afferma don Luca sulla solida e matura fede delle persone semplici, sull’efficacia della riflessione biblica fatta in diocesi da sedici anni, sulla maturazione del laicato, non più «docile gregge» come voleva Pio X.

Avrei evitato di citare il motto «credere, obbedire, combattere» perché, fuori dall’ambito in cui sono nati, certi slogan diventano semplici battute ad effetto, funzionali tanto a una tesi, quanto alla sua opposta; fra l’altro, nel contesto della lettera, risultano poco rispettose di una buona metà di italiani educati (dai pastori?) ad «ammirevole disciplina». Il rispetto è dovuto a tutti, compresi, ovviamente, i «cattolici del dissenso»(!).

De Marco parla di «Teologie senza trascendenza e senz’anima, senza dogma trinitario né sacrificio eucaristico».

Laddove queste teologie esistano, la chiarezza è d’obbligo, per la Chiesa. Peraltro, sono convinto anch’io che il nostro popolo, quello fatto dalle persone semplici – e, segnatamente, quello curato da don Luca – non sia affatto inquinato da una teologia senza trascendenza; non escludo, tuttavia, una qualche presa di tale teologia in persone meno semplici.

È evidente che il De Marco non si riferisce affatto a teologi come Mazzinghi – tutt’altro che minimalisti – ancorati saldamente al Concilio e alle fondamentali verità della fede, anche se i loro libri si vendono nelle librerie (cattoliche).

Tuttavia, don Luca sembra reagire decisamente contro il giornale ospitante e contro tutto l’articolo del professor De Marco, che aveva esordito citando il giudizio di Baget Bozzo sulla Spes salvi.

Quando Gianni Baget Bozzo – citato sovente in bibliografie di teologia trinitaria – parla di politica, raramente lo condivido e mi fa sorridere: anzi, mi diverte assai. Le sue esternazioni, però, mi sembrano più comiche che tragiche, diversamente dalla situazione politica italiana, più tragica che comica.

Nell’articolo del De Marco, don Gianni non era citato come politologo, ma per «il penetrante giudizio sulla Spe salvi». La valutazione è discutibile, ovviamente. Per questo, inviterei don Luca a entrare nel merito e a darci, su questa testata, il suo punto di vista sul contenuto dell’enciclica confrontato con la Scrittura. Sarebbe un approfondimento per tanti laici (e preti), fedeli lettori dei commenti – resi anche su questo tema – di Eugenio Scalfari e di altri editorialisti.

I due professori hanno chiamato in causa Radio Maria: devo confessare che vedo un rischio non trascurabile nelle certezze espresse da padre Livio e nella sua «teologia»(!). Tuttavia, quella sua partigiana – ma quanto mai spassosa – rassegna della stampa, mi ha reso simpatico Scalfari – «quel vecchio bianco per antico pelo» –, perché l’ho ravvisato nel «Caron dimonio dagli occhi di bragia»: per l’aria che spira oggi su alcune testate, quel dèmone dantesco, immune da ipocrisia, era decisamente un buon diavolo.

Baldo Bartolacciindirizzo e-mail No al cerchiobottismo teologico-pastoraleIntervengo dopo la lettera di don Luca Mazzinghi, che sottoscrivo totalmente, congiungendo alla sua esperienza di biblista parroco, la mia di docente di teologia e parroco.

Le «teologie postconciliari» sono spesso fatte da teologi che – come faceva San Tommaso che alla domenica smetteva l’abito da maestro e viveva con i poveri delle periferia parigina – non passano il tempo libero in disquisizioni teoriche contorte, ma condividono, senza banalizzarla, la fede con la gente semplice (anche in questo è stato maestro Severino Dianich, onore della Chiesa pisana). Conosco laici colti che hanno preferito docenti di tipo accademico a docenti che seguivano una teologia contestuale e laici che misurano la fede sul sapere. Proprio quei teologi poveri che sono i poveri nella Chiesa (d’accordo) non sanno dire, ma vivono la fede. E vorrei ricordare a chi è intervenuto che generalizzare dice più la proprie paure che non la verità e spesso quando si generalizza, come si è fatto in quell’intervento sulla teologia contemporanea, si dovrebbe sempre chiedere perdono per aver mancato di rispetto e di verità (il suddetto,per esempio, conosce davvero la teologia moderna se egli l’accusa di mancare del Dogma trinitario?).

Tuttavia, caro Alberto, permettimi una nota. Sì, anche se non hai voluto, la linea editoriale di Toscanaoggi «è stata coinvolta», perché l’intervento criticato non era fra le lettere, ma veniva presentato, anche sul sito, in forma ben diversa. Che cosa sono gli «interventi» di Toscanaoggi se non proposte all’attenzione dei lettori (come quello di Paola Ricci Sindoni nell’ultima numero)? E se così non è, allora poneteli tra le lettere. E nella risposta sembra che tu dia per certo che esista «il pluridecennale e interno vacuum teologico-catechistico». Meno male poi tu rimetti in gioco tutto aprendo il dibattito per il quale invio questo contributo. Con le formule liquidatorie non si va in nessun posto e occorre davvero confrontarci. Ma nello stesso tempo occorre superare il cerchiobottismo teologico e pastorale. Cioè bisogna impostare una scelta che viene dal rispondere anche a queste domande: la Chiesa è un agenzia di morale o è la sequentia Christi? La Chiesa vive in chiave apocalittica o esprime un cammino escatologico? L’incarnazione (assumere la carne e il peccato dell’umanità) è o non è il modulo della esperienza e della vita cristiana? E – in dipendenza da questo – si possono dimenticare i numeri 19-21, 44 e 92 della Gaudium et spes? E riguardo alla rivelazione e alla fede valgono i numeri 2, 5 e 21 della Dei Verbum? E riguardo all’unità della Chiesa vale il n. 4 della Lumen gentium che ci porta nella luce trinitaria? Oppure – per entrare in un esempio concreto dopo queste domande generali – possiamo accettare che la chiesa di Firenze si gingilli con la cavalcata dei magi,quando chiese come quella di Milano e di Padova hanno trasformato questa festa in un incontro di accoglienza e di partecipazione festosa e comunicante con gli immigrati che vivono fra di noi? Non si tratta solo di fare una celebrazione ma di attualizzare una festa nel contesto di una pastorale che accolga e aiuti i cristiani immigrati fra di noi a vivere e rafforzare la loro fede (e a questo proposito:quanti fra i preti provenienti dalle chiese dell’est e dall’Asia-Africa-America latina lavorano con e per i propri conterranei che sono presenti qui a Firenze?).Come vedi accumulo citazioni e tratti succinti solo per indicare questioni vive sulle quali lavora la ricerca attuale e sofferta della teologia nella chiesa. Su queste ed altre domande abbiamo da cercare e da comunicare vicendevolmente Le sveltezze liquidatorie non sono solo una mancanza di carità, ma anche una mancanza di verità. Nulla di male ad essere ignoranti,ma il male è quando dell’ignoranza si fa esibizione, soprattutto quando si pretende di farlo in nome del «Popolo cristiano» che suona come quando le femministe pretendono di parlare «in nome delle Donne».

Paolo GiannoniEremo di Mosciano Liturgie a parte, cerchiamo quello che conta davvero Caro Direttore, molti lettori certamente avranno apprezzato la sua risposta al Priore di Bivigliano che pur amichevolmente, polemizzava con il Prof. De Marco a proposito della Fede dei semplici.

Il fatto che un settimanale cattolico debba dare ospitalità a pensieri diversi, espressi con educazione e rispetto che favoriscono il dibattito e l’approfondimento e certo meritorio, visto anche come nel panorama della stampa questo rappresenta una lodevole eccezione.

Vorrei evitare di affrontare il tema politico che traspare nella parte finale della lettera dove non si perde l’occasione per attaccare i soliti politici pieni di quattrini, e capiamo benissimo a chi ci si riferisce, perché magari abbagliato dalla passione politica non si accorge che quelli che hanno provocato più difficoltà alle «vecchine» sono le politiche di risanamento dei conti pubblici degli attuali governanti che a parole e nelle conferenze anche loro hanno tanto a cuore gli ultimi.

Ma non possiamo ridurre tutto come sempre ad una sterile disputa politica. Ormai queste questioni, non soltanto annoiano, ma infastidiscono pure. Affrontiamo invece il tema più proprio della Fede popolare. Capitando occasionalmente a Bivigliano, la presenza di questo «popolo» di cui parla don Luca devo confessare non l’ho avvertita, ma sarà certamente per una mia distrazione.

Avverto invece nel paese, una presenza importante e vivace di una Chiesa che attraverso i vari Carismi dei movimenti, da testimonianza di vitalità e di Fede.

Questa vitalità che si esprime in opere, non solo caritatevoli, ma che attraverso una visione mutuata dal cristianesimo impregnano la società di un senso di equità e giustizia che non deriva da una legge espropriativa, ma da uno nuovo percepire del bene comune. Mai come adesso c’è bisogno di questo germe. Questo comune sentire, che trae le sue origini dalla tradizione cristiana, che con buona pace di molti «ultras laicisti», tanto bene farebbe a qualunque società è presente nella tradizione popolare, proprio in quella delle persone semplici, che senza tanta «esegesi biblica» posseggono come dono tramandato. Certamente, bene per chi voglia elevarsi o approfondire, ma la salvezza personale o della società non dipendono certo da dotte lezioni bibliche o da studi particolari, ma neanche da un pauperismo elevato a religione, dipendono solo da Uno: Gesù Cristo. Da quest’uomo, e non da altro dobbiamo ricostruire il nostro io e la nostra società, e noi che di Cristo di chiamiamo, dobbiamo nell’unità aiutarci nella realtà che siamo chiamati a vivere. Faccio un esempio, nell’articolo si cita che anche attraverso questi incontri di approfondimento teologico, un fedele è in grado di comprendere da solo «quanto siano patetiche e ingannevoli le nostalgie della Messa Tridentina». Ma mi chiedo, a cosa gli serve questa consapevolezza? Sarà più felice dopo questo, ho forse le domande sul senso della vita che ciascuno si pone saranno un po’ più appagate? Poiché il nostro tempo è breve sulla Terra, sia più utile cercare Qualcosa che risponda a queste domande e… chiudere un occhio sulle liturgie. Un caro abbraccio al prof: De Marco e…anche a don Luca.

Marco VedovatoPast President Serra Club International – Firenze Una spinta al cammino di conversioneCaro Direttore, a proposito dell’intervento del prof. Pietro De Marco – «La Fede dei semplici» (Toscanaoggi del 6 gennaio 2008) meditavo di intervenire per confutare certi principi, dotti, del professore che sono, a mio modesto avviso, palesemente arbitrari e pretestuosi.

La nostra Fede vissuta fervidamente e semplicemente ogni giorno, non trova certo riscontro nei concetti enunciati, nella verbosità di Padre Livio in Radio Maria e tanto meno nei giudizi di quel sacerdote che risponde al nome di Baget Bozzo, che inviterei ad un bagno di umiltà e di misericordia.

Ma don Luca Mazzinghi (Toscanaoggi del 20 gennaio 2008) ha mirabilmente risposto al prof. De Marco. Intendo ribadire e fare mie le sue considerazioni, con un vivissimo plauso, di tutto cuore e l’affetto di un fedele che trova in don Luca un luminoso esempio di sacerdote, di frontiera, esortandolo a continuare su questa strada. È di questi sacerdoti che noi laici abbiamo bisogno e il suo intervento è di sprone al nostro cammino di conversione.

Francesco CalcagniniSarzana (La Spezia) Una grande opera di evangelizzazione Caro Direttore, la lettera molto polemica (n. 3 di Toscanaoggi) di don Luca Mazzinghi nei confronti del prof. De Marco su aspetti della nostra fede, mi dà l’occasione di spendere alcune parole di difesa di Radio Maria e conseguentemente del suo direttore padre Livio a cui don Luca non lesina critiche. Se padre Livio crede alle apparizioni di Medjugorie avrà i suoi motivi per poterlo fare, come conoscitore dell’evento.

Don Luca dovrà ammettere che sono milioni le persone che annualmente vanno a Medjugorie e credono in queste apparizioni della Madonna, ed è difficile che una grande moltitudine di gente si sbagli, anche se questo è possibile. Don Luca deve sapere che è lo stesso padre Livio a rimarcare, in ogni occasione, che queste apparizioni non hanno ricevuto finora il riconoscimento della Chiesa; infatti la Chiesa proibisce l’organizzazione di pellegrinaggi istituzionali, ma non chi liberamente va a Medjugorie e crede nell’evento.

Il motivo di questa mia non è «Medjugorie», ma di esprimere un sentito ringraziamento a questa meravigliosa radio per l’opera di evangelizzazione che porta avanti e per le numerose conversioni ottenute.

Sono diversi milioni gli ascoltatori di Radio Maria giornalieri e questo «fervido popolo» si sta diffondendo in tante parti del mondo.

Se come afferma il Vangelo l’albero si riconosce dai frutti, dobbiamo concludere che questa radio è sulla giusta strada. La critica alla cosiddetta «teologia di padre Livio» la considero come una ferita inferta alla mia Fede.

Questo preparatissimo sacerdote, insieme a numerosi altri conduttori che si alternano ai microfoni di Radio Maria (professori, sacerdoti, vescovi, laici, ecc.) nelle loro catechesi non si discostano di un millimetro dalla «Parola del Signore». Se don Luca ha elementi per dire il contrario lo faccia. Nessuno contesta la Fede di tante persone semplici, anzi queste testimonianze sono le più gradite al Signore, però, oggi, carissimo don Luca in questo mondo scristianizzato occorre essere anche preparati per difendere la nostra Fede e attraverso la ragione giungere alla verità.

Far arrivare questa «Parola di Verità» nel mondo è lo scopo di Radio Maria e per questo chiede l’impegno costante di preghiera dei fedeli a cui non mancherà la benedizione della nostra Madre Celeste.

Sono ormai cinquanta le Radio Maria disseminate in tante parti del globo. Stupisce molto che questa grande opera di evangelizzazione avvenga attraverso il volontariato e il finanziamento solo con le libere offerte dei radioascoltatori.

Ernesto MezzettiCastelnuovo Val di Cecina (Pisa)  Quanti lo denigrano, vadano a MedjugorjeSono rimasto molto sorpreso e amareggiato dalle lettere pubblicate su Toscanaoggi su Radio Maria e di una su Medjugorje. Questo non tanto perché le abbiate pubblicate, anche perché le vostre risposte sono accettabili e condivisibili anche da chi — come me — fa parte di «quel fervido popolo» di Radio Maria, come in maniera positiva ci chiama il prof. De Marco, e, con un po’ di ironia, don Luca, ma perché mi sembrano offensive verso milioni di credenti in Cristo (prima di tutto!) e di conseguenza devoti di Sua Madre Maria, che ogni giorno ascoltano quella Radio, la più ascoltata in Italia e che ogni anno, da quasi 27 anni, vanno a pregare a Medjugorje.Soprattutto mi sembrano espressioni di una persona che non conosce bene Medjugorje e che non vi è stato, le affermazioni che fa il signor Guidi, in particolare a proposito dei veggenti.  Dovrebbe conoscere queste persone e parlarci, prima di giudicare e dovrebbe sapere che tipo di vita fanno e i digiuni (altro che spaghettate!) e quanto bene fanno. In quanto al giro di soldi o di mercato che si è sviluppato intorno a quel paese poverissimo, e che ora si sta sviluppando, penso ai tanti altri Santuari di ogni genere e in ogni parte del mondo che vivono sui pellegrini e si arricchiscono sui pellegrini. E nessuno se ne scandalizza.Su entrambi — Radio Maria e Medjugorje — invito a riflettere su due frasi. Una di Gesù: «Dai frutti li riconoscerete» ed una di Gamaliele negli Atti degli Apostoli «Se questa teoria e questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscireste a sconfiggerli, non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!». Quanti denigrano Medjugorje vadano a Medjugorje e guardino come pregano le persone, le file ai confessionali, il comportamento e la partecipazione alle Messe, alle Ore di Adorazione, alle Via Crucis e ai Rosari e le conversioni che ci sono. Ci sono anche miracoli, ma di quelli non se ne parla molto (ed è bene!), perché i veri miracoli sono le conversioni, quelle eclatanti di persone atee o lontane dalla Chiesa e da Dio, e quelle di persone semplici, magari colpite da disgrazie o da malattie, che tornano a casa serene e piene di fede in Dio, accettando la sua volontà, anzi ringraziandolo anche per le malattie.Attilio Bennati Lastra a Signa (Fi) La teologia aiuta la fede?Ho letto il dibattito su Toscanaoggi tra il prof. De Marco e don Mazzinghi e mi sono posto delle domande: la teologia o le mode teologiche aiutano od ostacolano la fede dei semplici? La tradizione potrà continuare ad essere fondamentale per la Chiesa senza essere considerata «patetica o nostalgica»? Perché l’approfondimento della Parola di Dio da parte dei laici sarebbe in contrasto con la dottrina certa indicata dal Magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? Può la fede o la sequentia Christi essere avulsa dalla vita e da problemi etici e morali che ne consegnano?Io credo che i cristiani dovrebbero ascoltarsi con attenzione, valorizzando i carismi e le diverse sensibilità senza eccessive polemiche, in modo particolare da parte di chi possiede una cultura biblica più profonda da mettere al servizio senza eccessive incursioni politiche. Vi invito a rileggere la prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi… io sono di Paolo, io invece di Apollo, io invece di Cefa, … e io di Cristo». Cerchiamo di essere di Cristo.Giuseppe SpennatiFirenzePerché ironizzare su Radio Maria?Mi inserisco nel dibattito fra don Luca Mazzinghi ed il prof Pietro de Marco, in quanto rappresentante di quel popolo dei semplici, da ambedue evocato. Ascolto Radio Maria e faccio parte di un movimento ecclesiale che fa della Parola di Dio il suo centro. Parlo quindi dall’interno di quel popolo che, so anch’io per esperienza, ha un sensus fidei profondo che lo anima. Ma perché ironizzare su Radio Maria, padre Livio, don Baget Bozzo (e allora anche sul cardinal Biffi e mons. Ravasi e gli altri che la frequentano?), come fossero indegne presenze, fomentatrici di «devozionalismi perseguiti da secoli da un Magistero che si vorrebbe onnipotente»? Proprio quei devozionalismi non sono forse le semplici forme di appartenenza ed anche di militanza su cui si fonda quella religiosità sostanziale, e forse anche teologia implicita, in cui ci riconosciamo, forse inconsciamente, noi popolo di semplici ed ignoranti?Meno ingenuamente, sento anch’io che ci troviamo in un «vuoto teologico-catechetico» e nella divisione interna alla Chiesa, alimentata specialmente, come De Marco ben dice, dal minimalismo teologico di intellettuali-teologi, con o senza tonaca; e, io aggiungo, da militanti religiosi alla Zanotelli, che partecipano alle marce per la pace o per la spazzatura in Campania, facendo ben più presa e chiasso degli intellettuali. Io trovo che questo vuoto è oggi riempito parzialmente solo dai movimenti ecclesiali e proprio da quel fervido popolo alla Radio Maria. Solo questi oggi sono ricchi di elaborazioni teologiche, vocazioni, intensità di azione e fede solida. Tutti i movimenti, si faccia caso, sono ben fedeli e appoggiati alla Chiesa e al Magistero, mentre delle più avventuristiche forme di laicato avanzato sono rimasti solo elementi residuali. C’è, è pur vero, un popolo che, per comodità, chiamerei di solidarismo cattolico, che appoggia movimenti pacifisti, sostiene iniziative umanitarie e ambientali, si appoggia a forme di dottrina molto indipendenti dalla Gerarchia, che quasi sempre è appiattito su posizioni politiche di sinistra, anche perché dalla matrice marxista trae la sua origine e, a differenza di altri, stenta a liberarsene. Ma in che si distingue, questo popolo, da qualsiasi altro di persone di buona volontà? E poi, quanto pesa questa parte nell’intero popolo di Dio?Nella conclusione di don Mazzinghi scorgo però un’altra ansia: quella di chi è sinceramente animato da un forte amore per il popolo di Dio e per la Chiesa, che vede come madre che erra, ma che tale resta e bisogna far di tutto per correggerla, anche contro la sua volontà. Io non condivido né l’analisi, se tale fosse, né il metodo di correzione e voglio poterlo dire perché trovo che sia una posizione ingannevole, soprattutto per tanti di noi. Ma riconosco la sincerità, ad esempio dove dice che la teologia non è tanto «dogma e predicazione» (citazione di De Marco di scritti di Ratzinger), ma «Vangelo e vita». Chi non condividerebbe questa affermazione? Ma è appunto tale, affermazione di principio, generica ed interpretabile, come lo è, in una certa misura, il Vangelo e, totalmente, la vita. E questo, condivido con De Marco, ha portato a derive dogmatiche e porta alle più varie interpretazioni personali o, che è peggio, di parte.Infine mi vien da dire: ma perché, soprattutto qui a Firenze, ci si divide così duramente nel mondo cattolico? Perché, come spesso noto, chi nel mondo cattolico la pensa diversamente è giudicato peggiore del fiero ateo a cui si fa grazia di posizioni inaccettabili per un credente, solo perché le sostiene con coerenza? Vale più la coerenza nell’errore oppure perseguire tenacemente, magari errando, la verità creduta?Alberto RecamiFirenze