Liturgia, le ragioni del «Motu proprio Summorum Pontificum»
Raggrupperei per mia comodità le Sue domande. Un primo gruppo.
Perché (1), da un lato, restaurare una liturgia mai abrogata e, dall’altro, se era il latino l’obiettivo, perché non promuovere la forma latina del Messale di Paolo VI invece di tornare a Pio V?
In più (2), tornare a Pio V non è forse regredire agli abusi del passato per rimediare a quelli del presente?
Ho già cercato di chiarire questo punto (rinvio ai due interventi pubblicati sul quotidiano on line di Magna Carta, www.loccidentale.it, da cui anche riprenderò dei passi). Vi è un aspetto tecnico giuridico che non è mio mestiere trattare, anche se mi cimenterei volentieri. Certo è che le dichiarazioni di non abrogazione della forma antica del Rito romano si sono moltiplicate di recente, ma lo stesso card. Medina Estévez, cui dobbiamo affermazioni nette in proposito, sembrava adombrare in passato (1999), firmando come Prefetto della Congregazione per il culto divino le risposte ai quesiti posti da Mons. Bonicelli, allora arcivescovo di Siena, una tacita abrogazione da parte di Paolo VI[1].
L’argomento e silentio relativamente agli atti di Paolo VI, che oggi pesa correttamente a favore della non abrogazione tacita, è stato a lungo usato in direzione opposta. Inutile ripetere quello che troppe voci hanno attestato recentemente: gli ordinari aministravano la concessione della celebrazione dell‘anticus ordo missae con molta parsimonia, forse apprensione, talora ostilità, in sostanza troppo ad libitum, nonostante il cosiddetto indulto della Quattuor abhinc annos risalisse al 1984 e il più deciso motu proprio Ecclesia Dei (ancora un atto del vescovo di Roma in prima persona!) al 1988[2].
La decisione di Benedetto XVI di sottrarre la celebrazione della messa tridentino-gregoriana alle contingenze locali, è un ammirevole atto d’imperio, quale attiene alla missione petrina. La Summorun pontificum risolve i tentennamenti e le resistenze perenni nelle chiese locali, e tra gli specialisti, alla luce di una convinzione maturata in molte sedi, anche entro la Congregazione per il culto divino, da oltre un decennio.
In effetti una svolta è in atto già nel 1996, con l’avvio della preparazione della Editio typica tertia del Missale di Paolo VI, ed è confermata dalla sua promulgazione (2000) ed edizione (2002). Nella Institutio del Messale non solo si rafforzava il richiamo ad un massimo di rigore (a fondamento teologico) negli adattamenti di gesti e parole a situazioni, non solo si aveva la fermezza di dire fine alla stagione delle sperimentazioni, ma fu ulteriormente marcata l’essenza sacrificale del rito e l’infungibilità del sacerdote. La Institutio generalis del 2002 (ma anticipata nel luglio 2000)e alcuni attenti, non minimizzanti, commentari delle sue novità vanno assolutamente letti; essa si trovò naturalmente tra i due fuochi della minimizzazione da parte riformatrice e della insoddisfazione (Tutto positivo, dunque? Purtroppo no) di parte tradizionalista non scismatica .
Perché, a maggior ragione, questa correzione di rotta non basta agli occhi del Pontefice (e, con ogni probabilità, di altri)?
Non basta, perché non si tratta solo di venire incontro caritatevolmente (nonché secondo verità) ad istanze di una frammentata minoranza. Si deve pur riconoscere (tardivamente? Questo non vale certo per Joseph Ratzinger) che alcune delle severe riserve che vennero dall’interno della Chiesa agli indirizzi della riforma liturgica degli anni Sessanta, riserve coltivate poi per decenni da ambienti diversi e certamente non scismatici, hanno conservato e visto confermate nel tempo le loro buone ragioni.
Non sfuggì e non sfugge a critici più severi che, nelle mani dei liturgisti (e biblisti; pochi i teologi) del Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, la Messa della tradizione secolare tridentino-gregoriana si stava riducendo alla figura-evento della Cena, della sua commemorazione più che riattualizzazione, sotto la presidenza del presbitero[3]. Enorme il rischio, col tacere dell’evento culmine della transustanziazione e sottovalutare la natura sacrificale e propiziatoria del rito, di smarrire la peculiare realtà della Messa. Si sostenne anche, e sottilmente a mio parere, che la nozione di Presenza veniva equivocata, nei testi prodotti dal Consilium, col porre sullo stesso piano la presenza di Cristo nella Parola e la Presenza nel sacrificio eucaristico. Le riserve furono e restano eccessive, ed eccepibili nel merito; perché furono però preveggenti quanto alla recezione delle riforme nelle chiese locali? Una domanda importante; dovremo raccogliere il coraggio e l’intelligenza per rispondervi.
Resta, a mio parere, colpevole la sottovalutazione, spesso sprezzante, dele critiche conservatrici da parte dei liturgisti impegnati a più titoli nella riforma. Eppure ebbero dinanzi agli occhi le derive teologiche e pastorali puntualmente e precocemente (già negli anni Sessanta) realizzate [4]. È vero che negli anni Sessanta-Settanta, non solo nella Chiesa, gli occhi di moltissimi (e non mi tiro fuori iuventute mea) erano come accecati.
Si capisce che la disciplina del nuovo rito, anche nella revisione del 2000/2002, non solo non basti ai tradizionalisti (non sarebbe decisivo, considerata la loro rigidità) ma, ciò che conta, non basti a Roma. Essa non è, ovvero ha mostrato di non essere, freno in sé sufficiente alle concezioni banalizzanti, attivistico-comunitarie, della materia liturgica che sono subentrate alle sfide manipolatorie di qualche anno fa. Né basta il latino della typica tertia: non è il latino il problema, ne è solo un corollario.
La nuova legittimazione erga omnes della intatta validità (ma legittimità e legittimazione non vanno di pari passo) del Missale romanum tridentino o di Pio V (nelle revisioni posteriori, fino a quella pio-giovannea del 1962), e la sanzione positiva della sua scelta alternativa libera, decise da Benedetto XVI, vanno oltre le pratiche di pacificazione, quanto a intentio magisteriale. Esse dichiarano che la ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima Concilio Vaticano II, restano vitale orizzonte della nostra vita liturgica. Inoltre, nel permettere che due diverse sensibilità si affianchino liberamente e con pari dignità, Benedetto riconduce la forma cattolica alla sua essenziale natura di complexio (espressione che preferisco di gran lunga a diversità o pluralismo: complexio è diversità necessariamente articolata in unità secondo il senso).
Sottolineo ancora che la sensibilità e la determinazione del Pontefice non sono, ovviamente, isolate. Le opinioni ai vertici della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sembrano decisamente favorevoli a restituire alla tradizione liturgica preconciliare e al lavoro del Concilio come tale il suo valore intrinseco e il suo peso regolativo[5]. Anche a difesa delle diverse forme di attuazione della riforma liturgica, poiché dall’arbitrio nulla viene risparmiato, anzitutto ciò che si presenta come nuovo.
Ma (e integro la domanda 2 con la 4 e la 5): il motu proprio valeva comunque la pena, di fronte a) ai rischi di conflittualità, b) ai rischi di recupero di antiche carenze e abusi legati alla liturgia tridentina?
Come ho già scritto, la ricchezza tradizionale intera, per dire così, del culto cristiano è, per Benedetto, il canone cui attingere nuovamente. È criterio strettamente connesso all’essenza stessa dell’analogia Fidei. L’obiettivo della riconciliazione interna nel seno della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento per l’intera comunità credente, indipendentemente da storiche tensioni con le minoranze tradizionaliste.
Conosciamo la reazione, spesso innervosita, degli episcopati. La moderatio Sacrae Liturgiae esercitata dal Vescovo dovrà, comunque, essere intesa dagli ordinari in conformità alla intentio del Pontefice, con più attento senso, rispetto al passato (almeno per alcuni casi), delle necessità della chiesa e della struttura della Tradizione.
Questo quadro può essere generatore di conflittualità intraecclesiale? Le confesso: avrei voglia di replicare che l’argomento della conflittualità (come rischio, anche spirituale o morale) è spesso usato per proteggere i gruppi, o gli stati di cose, egemoni o prevalenti.
Ho scritto, come Lei gentilmente rammenta, che la libera ozione del Missale romanum (del 1962), che potremmo chiamare tridentino-giovanneo, agirà come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente. Il Card. Lehmann ha riconosciuto in questa stessa direzione, mi pare, che il motu proprio è un buon motivo per promuovere con nuova attenzione una celebrazione degna dell’eucaristia e degli altri riti sacramentali. Chiaramente per la chiesa tedesca l’obiettivo della riconciliazione interna nel seno della Chiesa (formula del Card. Ruini, Avvenire, 8 luglio) diviene un intervento medicinalis a spettro ampio, indipendentemente dalla presenza di minoranze scismatiche.
Si conferma, a mio avviso, con la Summorum pontificum il taglio inconfondibile del programma di Benedetto XV. La sua visione strategica opera ad integrazione-compimento del magistero di Giovanni Paolo II, con quelle caratteristiche di fermo discernimento sui temi della verità e della ragione che il Card. Ratzinger aveva praticato come Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Rendere esplicita e governare fermamente, nell’unità, una feconda complexio è in profondità la funzione petrina. Ne valeva, e ne varrà, sicuramente la pena.
I rilievi critici sul rito antico: scarsa presenza della Parola e del Popolo, ritualismo e tentazione magica, infine una liturgia che dimentica la bellezza del simbolo per diventare pedantemente allegorica, non hanno peso?
Si tratta, anzitutto, di una caratterizzazione deteriore quanto corrente del rito antico, che chi lo ha praticano e interiorizzato nella sua formazione cristiana contesta fermamente. Ciò che di non sostituibile il rito antico porta con sé, ed esprime in gesti e parole, ho già cercato di dirlo. Ricordo che i maestri della primissima fase della riforma liturgica (da Martimort a Jungmann al nostro Righetti, al grande liturgista Odo Casel, meno prossimo al Concilio – era morto nel 1948 -, e tanti altri) conoscevano la magnificenza simbolica, non allegorica (a chi è venuto in mente?), del rito cristiano entro e a partire dalla liturgia gregoriano-tridentina, che non hanno mai pensato di sconvolgere.
Opere di filosofia liturgica se posso esprimermi così che hanno nutrito tante generazioni, quelle di Guardini e di Hildebrand, nascono entro lo stesso ordo e la stessa esperienza. Così, negli anni della mia formazione, Il senso teologico della liturgia di p. Cipriano Vagaggini. Una frattura vi fu. Infatti, che hanno a che fare Casel o Jungmann o il magnifico saggio di liturgia teologica generale di p. Cipriano (la quarta edizione, che conservo annotata, è del 1965), o la stessa Costituzione liturgica del Concilio, con gli indirizzi della riforma diffusa e dello stesso Consilium ad exequendam[6]?
In questa frattura prende corpo, oserei dire, ufficiosamente nella Chiesa lo stereotipo che Lei evoca. Le critiche protestanti e modernistiche al ritualismo e al magismo della Messa avevano sempre ricevuto la loro adeguata risposta. Ma il riformatore, questa volta il riformatore cattolico, ha bisogno di un contromodello, di un paradigma negativo, e non va per il sottile.
Certo, la riforma forse non guidata ma disciplinata, ed era difficilissimo, da Paolo VI ha introdotto nell’actio liturgica più Scrittura, più Memoriale e più Popolo. Roma riuscì allora con difficoltà (per qualcuno non vi riuscì del tutto) ad evitare la deriva protestante. Deriva temibile, perché lex orandi e lex credendi sono legate tra loro e perché, comunque, nella Tradizione tutto è fortemente connesso. Sequenze intere di elementi fondamentali simul stant, simul cadunt. Non nascondiamoci che molte élites teologiche cattoliche, specialmente nelle cerchie europee ecumenizzanti, lo sapevano e lo speravano.
Non si tratta, dunque, di smarrire quello che della vita liturgica attuale apprezziamo; né è ragionevole pensare che il motu proprio abbia non solo l’intentio che non ha ma la forza obiettiva di produrre effetti indesiderati del genere e su larga scala. Ma dobbiamo saper prendere atto che Parola e Popolo sarebbero da soli poca cosa (e davvero un po’ magico-teurgica) senza la Realtà che precede, fonda e trascende la comunità orante – del Corpo mistico e del mirabile mysterium praesentiae realis Domini sub speciebus eucharisticis.
[1] A rigore la lettera della Congregazione dell’11/6/1999 (v. nel sito di Una Vox/Documenti) affermava che il Messale Romano anteriore al Concilio non era più in vigore come una scelta alternativa libera, ma il tono generale appare un po’ tranchant. La vasta documentazione cui faccio implicito riferimento in queste note è attinta, anzitutto, dalle sedi ufficiali, Enchiridia e fonti accessibili on line nel sito del Vaticano, nonché dai siti di Una Vox ed altri connessi.
[2] Giovanni Paolo II nella lettera apostolica motu proprio data Ecclesia Dei (2 luglio 1988), affiancava alla decisione sanzionatoria (scomunica per l’ordinazione illegittima di vescovi) nei confronti della Fraternità di S.Pio X, delle considerazioni sulla ricchezza rappresentata in charismatum varietate et in rerum spiritualium traditionibus. La teologia e la scienza ecclesiastica scriveva- devono sentirsi coinvolte dalla ampiezza e dalla profondità stessa degli insegnamenti del Concilio; va messa in luce la continuità del Concilio con la tradizione, specialmente nei punti di dottrina che, forse per la loro novità, non sono stati ancora ben compresi da alcune parti (portiones) della chiesa. Aggiungeva: A tutti questi fedeli cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina, desidero manifestare anche la mia volontà alla quale chiedo che si associno quelle dei vescovi ( ) – di facilitare la loro comunione ecclesiale, mediante misure [rationes] necessarie per garantire il rispetto delle loro giuste aspirazioni (ad tuendam observantiam eorum appetitionum) (cfr. EV, 11. 88-89, 1202).
[3] Era in corso, dagli anni stessi del Concilio, su più fronti tutto un processo pastorale-ecclesiologico e dogmatico squilibrato e squilibrante che i Padri conciliari, anzitutto, non (pre)vedevano, non di certo la maggioranza. La stessa scienza liturgistica era penetrata da istanze di chiesa/liturgia primitiva, che travalicavano gli obiettivi della Sacrosantum Concilum. Non si cercò più il criterio guida entro le linee di una ontologia misterica, per esprimerci così, ma in una forma elementare socio-ecclesio-logica della comunità orante, una semplificazione sub-durkheimiana. Il sacro strutturante è, infatti, sostituito dal pragma (mentre Durkheim fu dichiaratamente antipragmatista) della comunità attiva, pedagogica più che liturgica.
[4] Dobbiamo gratitudine a quanti nella Chiesa, senza giungere a punti di rottura ma fermamente, hanno individuato fino dagli anni Sessanta le teologie, spesso implicite, che premevano per innovazioni strutturali contro la Tradizione o in nome di una sua lettura archeologica (il topos strumentale della chiesa primitiva). Dalla drammatica Ottaviani intervention della fine settembre 1969 alla riflessione critica di questi anni, di cui c’informa, ad esempio, l’associazione internazionale Una Vox, la difesa della forma sacerdotale di celebrazione del Sacrificio eucaristico e del tesoro dogmatico della Presenza reale si è dimostrata un servizio vitale alla verità cattolica e alle chiese cristiane.
[5] In questo senso le dichiarazioni recenti alla Croix (giugno 2006) di Mons. Albert Malcolm Rajith, segretario della Congregazione. Voglio sottolineare l’impegno di Roma per i criteri di traduzione dei testi, felicemente rivelatore di una nuova determinazione nel governo della forma liturgica nella catholica. L’istruzione Liturgiam authenticam (2001) si concentra su di un terreno difficile, la liturgica translatio, con ragionate istanze di disciplinamento rispetto alle tendenze dei decenni passati. Certamente l’Istruzione prende le distanze dall’avventata idea del Consilium ad exequendam che auspicava (già alla metà del 1967!) un futuro prossimo in cui non sarebbe stato più necessario ricorrere a traduzioni letterali del patrimonio liturgico. Un intervento del Card. Arinze, attuale Prefetto della Congregazione per il culto divino, al Congresso liturgico di Gateway del 2006, precisa che per la Liturgiam Autheticam la traduzione liturgica non è un lavoro di innovazione creativa, ma di fedeltà e accuratezza rispetto alla fonte, che è anch’essa canone di fede, lex orandi. Né è senza significato che Arinze abbia ritenuto di aggiungere che i traduttori non debbono diventare degli iconoclasti che distruggono o danneggiano quello che traducono. E lo abbia rafforzato col richiamo alla istruzione Redempionis sacramentum, n.59 (e all’Istruzione generale al Messale romano, 2002) che concerne la frequente pratica per cui sacerdoti, diaconi o fedeli mutano e alterano qua e là a proprio arbitrio i testi della liturgia che pronunciano. Le reazioni un po’ supponenti alla LA apparse sulla Rivista Liturgica confermano quanto la scienza liturgica sia ancora resistente a riesaminare autocriticamente il proprio percorso.
[6] La testimonianza a futura memoria del liturgista belga André Rose, un membro di minoranza (per dire così) del Consilium, morto nel 2003, è a questo proposito impressionante (cfr. Una Vox/Documenti).