Sul caso Englaro e l’entrata «a gamba tesa» di un vescovo

Sull’entrata “a gamba tesa” di un vescovo sul caso Englaro, come l’aveva definita il «Corriere fiorentino», Pietro De Marco ha inviato al quotidiano fiorentino una riflessione indirizzata al suo direttore Paolo Ermini. Il testo è stato pubblicato sul «Corriere fiorentino» in una versione necessariamente abbreviata. Pubblichiamo qui, per i lettori di Toscanaoggi online, il testo integrale della riflessione del prof. De Marco sul confronto tra il Vescovo e il Consiglio comunale di Firenze, in merito alla concessione della cittadinanza onoraria di Firenze a Beppino Englaro..

Gentile direttore (del «Corriere fiorentino», ndr), ho dissentito con Lei (editoriale del 12 marzo scorso, e con Carlo Sorrentino, editoriale del 13) sull’uso della metafora calcistica dell’intervento “a gamba tesa (anche commettendo fallo)” per indicare forma e sostanza del Comunicato dell’Arcidiocesi del 9 marzo scorso, critico sulla concessione della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro. D’altronde si trattava di una formula cortese, rispetto ad altre reazioni.

Ma è utile domandarsi perché, decidendo di usare una metafora sportiva (perché no?), si debba evocare una condotta di quelle che impongono, di norma, all’arbitro di fischiare fallo. E perché altri abbiano ravvisato nel comunicato della Curia espressioni di “disprezzo”, addirittura un proclama intimidatorio, un diktat cui il Consiglio comunale avrebbe dovuto inchinarsi. (Noterà che adatto al nostro caso espressioni come proclama e diktat che Rodotà ha riservato al più recente intervento del Card. Bagnasco; esse traducono bene le reazioni fiorentine più aspre, poiché il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono ormai standardizzati e automatici).

Tenterei una mia risposta, che investe la storia civile-religiosa dell’ultimo mezzo secolo. Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento “falloso”. Da decenni le popolazioni si sono assuefatte al silenzio del loro clero, dei loro vescovi, in sede pubblica; anzi, ed è un’aggravante, si sono assuefatte a che i vescovi eventualmente parlino in pubblico per confermare valori (e retoriche) civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità. Anche se non sono mancate eccezioni a questa “correttezza”, essa è stata prevalente, spesso convinta, e molto gradita da amministratori e forze politiche. Da una pratica si sono derivate, presto, delle tacite regole del gioco. L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto. Ma vi è più. A mio avviso un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa astensione ecclesiastica dal dissenso, questa correctness nella sfera pubblica (che ha motivazioni complesse, anche pastorali e dottrinali), con l’ottimo equilibrio tra autorità spirituali e politiche; gli uni non avvertendo, gli altri vedendo bene ma senza dirlo, che si realizzava così nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare, irrinunciabile, natura pubblica della Chiesa. In una recente amichevole polemica con Ernesto Galli della Loggia ricordavo come la moderna dottrina laica (senza altri aggettivi) leghi, di fatto condizioni, la neutralità del magistrato civile – oggi diremmo dello Stato – al carattere in sostanza privatistico di una Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua “innocuità” politica, delle quali il magistrato sarebbe giudice. Ma la Chiesa cattolica non è questo per essenza, né riducibile a questo, per una verifica plurisecolare. Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa-Occidente, non lo diviene dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle Religioni politiche e delle Rivoluzioni totali del Novecento.

Intendiamoci: che questi dati profondi, la presenza magisteriale e civilizzante, della Chiesa cattolica esigano ch’essa compaia come tale nella sfera pubblica, si è nuovamente capito da alcuni anni. Il Pontificato di Giovanni Paolo II anzitutto, e l’innovativo governo della chiesa italiana esercitato dal Card. Ruini lo avevano messo sotto i nostri occhi. Ma, non casualmente, sia l’assuefazione di parti della società civile sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della chiesa tentata dalle culture laiche, ancora convergono nel segnalare la presenza magisteriale e civilizzante come eccezione, come trasgressione, persino come intimidazione. Passiamo a Firenze e a suo Vescovo. Il vescovo cristiano è, fino dai primi secoli, sia centro della vita liturgica (che è vita pubblica) sia – in coerenza col suo ministero che è “sovraintendere” – una peculiare autorità civile. Sottolineava anni fa uno storico della tarda antichità: “è impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato ad intervenire”. Anche se non è un signore territoriale il vescovo è un defensor civitatis con un ruolo di balance rispetto ai funzionari civili. Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale (nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani) le funzioni assistenziali e di governo: essi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano. Il vescovo, nel quadro della sua città, sarà detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità locale di fronte al potere civile. Confermano altri storici: “i suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione” ordinaria, ministro dell’assistenza. Questi tratti di lungo periodo sono stati, per dire così, aggiornati e armonizzati agli ordinamento dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti né veramente depoliticizzati; restano costitutivi. Ed è così vero, ed evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando quei “titoli” politici (verso la polis) si esprimono in attività sociali di “supplenza”, sono graditi, ricercati, elogiati. Quando invece la sollecitudine del vescovo, che in se stessa non è, diremmo, welfaristica ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salus animarum anche quando sovviene ai corpi, si rivolge ad altre e decisive tutele del ben-essere (spirituale, morale) dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa appare “fallosa”. Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio. Il richiamo al “rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie”, che compare nella lettera inviata dal Presidente del Consiglio Comunale all’Arcivescovo, mostrano (se intendevano suonare come censura) scarsa conoscenza di questo dato.

Il comunicato dell’Arcidiocesi di Firenze è, nella sostanza, la prima lettera di Giuseppe Betori vescovo alla (e sulla) città, e splendida invettiva, anche. Letta con attenzione, come merita, è davvero un atto di sollecitudine del Pastore, “garante della giustizia e protettore dei deboli” sul terreno che chiamiamo oggi antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici. Egli analizza e mette in guardia. Al Corriere fiorentino Riccardo Nencini (che sono davvero lieto di vedere ristabilito) aveva detto che lo stile ortodosso di Mons. Betori non è in sintonia con Firenze, poiché “Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia”. Temo che questa convinzione appartenga ad una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze “eretica”, che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento. Ma proprio il passato cattolico recente, quel “filone del secondo Novecento della Chiesa fiorentina che siamo abituati a conoscere”, e che Nencini invoca, non ha a che fare con quel mito: La Pira era un “piagnone” di forte ortodossia. E dopo la stagione lapiriana quel “filone” si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nicodemitismo e conformità “progressista”, di cui dicevo.

Ma non è più la stagione dei silenzi o dei sussurri per la Chiesa. Il Presidente Cruccolini ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, “espressione concreta della volontà della città”, non possono mai essere considerate “negative”. È confondere legalità con legittimità politica. Osservo: non ha la lotta tra gruppi e correnti della maggioranza prodotto una delibera a portata solo ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza a Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla ad una irriflessa opzione su frontiere di estrema gravità (l’eutanasia)? Non è stato, quello della (ridotta) maggioranza dei consiglieri, l’ennesimo uso di poteri e strumenti, per “dimostrare contro” il governo nazionale e contro la Chiesa, mentre il Parlamento stava lavorando al “testamento biologico”? Un atto politico che mi è difficile non giudicare “pretestuoso, offensivo, distruttivo” per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica. Domani quali decisioni azzardate potranno essere prese facendo aggio simbolicamente sul “cittadino Englaro” (con l’apporto, purtroppo, di quanto resta del “dissenso” cattolico) ?

Il Vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi iustitia nel senso profondo della “politica” cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia. Dovremmo prenderne atto, posare il fischietto e riflettere.

Pietro De Marco