Tra Islam e Occidente

Il sociologo delle religioni Pietro De Marco replica all’intervento con cui Franco Cardini aveva commentato le numerose lettere pubblicate da Toscanaoggi a proposito delle polemiche nel mondo islamico sul discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona («L’Islam che ha voluto fraintendere il Papa», numero 34 del 1° ottobre scorso).Caro Direttore, mi provoca l’ampia pagina di controdeduzioni che l’amico carissimo Franco Cardini ha opposto ai lettori di ToscanaOggi sulla piccola crisi Islam-Benedetto XVI. Vorrei dire subito il mio accordo con Cardini su due punti, strettamente connessi: 1) è certo condannabile la nostra (di cristiani) conclamata tolleranza se è disinteresse, o inerzia, o pavidità nel difendere la nostra fede, 2) è, al contrario, giusta e benedetta la critica che la fede islamica porta al nostro (di europei) «disprezzo di Dio e al (nostro) cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà». Osservo che il primo punto è largamente, anzi, quasi esclusivamente condiviso dalla deprecata (da Cardini, non da me) opinione «teocon», quanto poco gradito all’opinione democratica, cattolica e non: com’appare antidialogico e demodé per esse «difendere» la fede!Aggiungo che, invece, non mi conquista la requisitoria anti-Occidente di Cardini. La trovo oltre tutto poco pertinente; l’islam arabo, in particolare, non è vittima ma co-protagonista del «potere mondiale del denaro», se esiste qualcosa del genere. Inoltre non mi pare esatto attribuire all’allora card. Ratzinger (gli interventi sull’Europa si dispiegano dal 1992 alle soglie del pontificato) una distinzione tra «odio di sé» dell’Occidente come civiltà (che sarebbe irrilevante, anzi inesistente: l’Occidente si ama nella propria ricchezza, secondo Cardini) e un «odio di sé» dell’Occidente come negazione della fede in Dio (che sarebbe l’unico importante). Le due dimensioni, fede e civilizzazione, sono storicamente implicate e lo restano nella sollecitudine di Benedetto XVI. Se l’Europa-Occidente, nella diagnosi dei Pontefici, è un dramma (non da ora) è perché nella sua intera realtà essa «si odia» e entro questo odium colpisce anzitutto la propria radice e consistenza cristiana. Di più (e so di dissentire nettamente con Cardini su questo): l’Europa-Occidente «si odia» quando si attribuisce, con irrazionale e inutile colpevolizzazione, i mali e le colpe del mondo, e con ciò si illude, impoliticamente, di non avere un Nemico fuori di sé – mentre esso esiste.Perché questo mi pare il punto. La volontà di patrocinare il riconoscimento dell’Altro islamico come parte integrante di una futura, grande complexio (non nihilisticamente indistinta o «meticcia») tra civiltà, mi vede in prima fila. Propongo da tempo terreni istituzionali di incontro, e forme circoscritte e negoziate di «riconoscimento» della shari’a. Terreni sgraditi per ragioni opposte alle laicità di destra e di sinistra, e interne o esterne alla Chiesa, perché sono traguardi razionali (ad esempio sullo spazio di riconoscimento dei diritti sacri e consuetudinari delle comunità musulmane entro i nostri ordinamenti) e non miracolosamente dialogico-emancipatori. Con lo stesso metodo ritengo, diversamente da quanto l’amico Cardini ha sempre sostenuto, che debbano essere negoziate delle consistenti reciprocità .Ma conservo, e credo che dobbiamo conservare, occhi fermissimi sulle istanze militanti universalistiche dell’islam ideologico, certamente organizzato, potente e influente in aree geopolitiche vitali. In quell’orizzonte, sia pure senza occuparlo totalmente, opera il terrorismo. Per chi rifiuta una lettura onirica delle cose l’11 settembre non solo non è un complotto degli Stati Uniti, ma non accade senza precedenti. Una concertazione terroristica, dal Mediterraneo al Pakistan, era operante (ed era stata diagnosticata) da anni. Solo la nostra volontà ideologica di ignorare il Nemico fuori di noi può negare che sia (e fosse) in corso un’iniziativa militare sui generis (secondo la logica schmittiana del Partigiano o secondo forme di guerriglia dette di quarta generazione), entro un disegno islamista di affermazione mondiale di una civiltà (e certo di una spiritualità e di una fede). Non coglierlo è pericoloso (per il mondo) e non è utile per un rapporto equilibrato (e, sia permesso di dirlo, virile) oggi e domani con il partner islamico di civiltà. Ma nessuna contraddizione tra una previsione di partnership futura con l’islam, nel quadro euroasiatico occidentale, e un attuale contrasto armato. Il realismo strategico è una costante storico-mondiale nei rapporti tra gli uomini. L’islam non è, in sé, inimicus, e in molti ne conosciamo e ne amiamo cultura, fede, socialità. Ma può essere e oggi è, per una sua parte, hostis . Secondo razionalità guardiamo con rispetto all’Altro, ma non inermi né inattivi (esercitiamo potenza e influenza, per dirla nei termini della scienza delle relazioni internazionali).Razionalità difficile da fare intendere, caro Direttore, non mi è del tutto chiaro perché; forse perchè abbiamo preso in odio anche la nostra occidentale capacità di discernere e distinguere. Arriviamo allora all’interpretazione della lectio magistralis di Regensburg. Due osservazioni. Non mi pare esatta, anzitutto (ma è la cosa meno importante), l’imputazione dell’amico Cardini ai «fondamentalisti» occidentali, ovviamente neo-teocon, di avere essi provocato la mobilitazione e la protesta nei paesi musulmani. La informazione giornalistica mondiale immediata ha trasmesso, lo ricordiamo tutti, la «notizia» di un testo del Pontefice critico nei confronti dell’islam, senza particolare consenso neo- o teocon, anzi con (larvata o esplicita) critica per una sua presunta imprudenza o inopportunità. Dopo le prime reazioni (né poteva essere prima) è scattata nell’opinione occidentale una qualche polemica anti-islamista, non solo neo- o teocon ma nei diversi ambienti politici democratici. Anche in questo caso, mi chiedo e chiederei a Cardini, perché attribuire a noi stessi (all’Occidente) quello che è iniziativa ostile altrui? Col vantaggio di chi, e con quale ratio? Niente mi impedirà di distinguere tra reti e strategie islamiste di mobilitazione ostile, e popolazioni (e élites ) musulmane non ostili, comunque non mobilitate. Né per identificare queste ultime ho bisogno di chiudere gli occhi di fronte alle prime.La seconda. Vi è una singolare analogia tra questo quadro e l’interpretazione della citazione ratzingeriana di Manuele II Palelologo. Solo in virtù di antica frequentazione e passione per cose bizantine (almeno protoumanistiche) mi azzardo ad avere un’opinione diversa da un vero medievista, qual è Cardini; ma il quadro mi pare più complesso. Se il nucleo dei dialogoi tra Manuele e il dotto persiano risale alla favorevole occasione del campo invernale del 1392, sicuramente la redazione di un testo di portata dottrinale, e non breve, dovette occupare anni; questa era d’altronde l’opinione dello stesso Khoury. Il testo viene dunque messo a punto, e probabilmente ripensato nei suoi termini rigorosi, in anni che vedono il tenace assedio di Costantinopoli da parte di Bayezid, e la infruttuosa ricerca di aiuti in Europa da parte di Manuele, intercalata dal disastro di Nicopoli. Dunque, l’imperatore redige un confronto tra le due Fedi o – secondo una dizione corrente e profonda – Leggi (la cristiana e l’islamica), col metodo del dotto ma contemporaneamente con le armi in pugno. Se la Legge difesa dal suo contraddittore si afferma con gli eserciti, e mette in pericolo la residua sovranità e la vita stessa del basileus , Manuele ne chiede ragione, sul terreno proprio della disputa teologica. E per parte sua riconduce, polemicamente, quella volontà di conquista alle radici coraniche.Ritengo (e l’ho scritto nel settembre scorso, v. www.chiesa.espressoline.it, ove la discussione prosegue) che Benedetto XVI abbia citato quel passo dell’opera del Paleologo con la piena avvertenza delle sue implicazioni; ha inteso, cioè, ad un tempo proporre un esplicito terreno di dialogo, mediato da un logos che ambedue le tradizioni conoscono, ricordando all’altra parte che essa, tuttavia, si mostra nemica in armi. E chiedendo all’altra parte di riflettere su questa evidenza. È lo stile di Benedetto XVI. Atto di estrema lealtà dialogica (nulla a che fare col dileggio «laico» delle vignette, anzi l’opposto) ed esempio squisitamente cattolico di un sapere di realtà che non si smarrisce in sogni. Si ha persino l’impressione che la parte più avvertita dell’islam mondiale lo abbia capito.

Pietro De Marco

Il Papa all’Islam: indispensabile il dialogo