Una moschea a Firenze? Le ragioni del «sì»

di Franco Cardini

La comunità musulmana di Firenze ha presentato al comune un progetto di moschea che ha sollevato polemiche tanto per il suo aspetto, ispirato all’architettura quattrocentesca fiorentina, quanto per la sua sostanza. È giusto o no, è opportuno o meno, che si apra una moschea a Firenze?

In altri tempi – da quando, in pieno Seicento e con un Mediterraneo solcato dagli sciabecchi corsari barbareschi, nel porto di Genova i mercanti musulmani tenevano tranquillamente aperto un loro luogo di culto – il problema non si sarebbe nemmeno presentato. Da allora fino al tempo del «libera Chiesa in libero stato», nessuno avrebbe mai trovato da ridire sul fatto che cittadini ed ospiti di un qualunque paese occidentale avessero il diritto di pregare il Dio che volevano secondo le forme che preferivano: e anche a Firenze ci sono sempre state, almeno dall’Ottocento a questa parte, chiese cattoliche, chiese cristiane riformate di qualunque setta, chiese ortodosse, sinagoghe ebraiche, templi massonici, più recentemente templi buddhisti e induisti. Perché mai non dovrebbe esserci una moschea per accogliere i circa 30.000 musulmani che popolano la provincia fiorentina, extracomunitari certo, ma ai quali si aggiungono però 1000 persone originarie sì di paesi diversi eppure ormai in possesso della cittadinanza italiana – quindi nostri concittadini – e più o meno 200 cittadini italiani di vecchia e sicura origine che hanno scelto di convertirsi all’Islam, e che nondimeno restano a tutti i livelli – e soprattutto poi in un paese laico – gente «nostra». Negare a queste persone, in particolare all’ultima delle categorie or ora evocate, il diritto a pregare e ad avere un luogo di culto sarebbe davvero aberrante.

Eppure, succede. Di recente, durante un dibattito radiofonico organizzato da «Lady radio», un consigliere provinciale di Firenze ha inalberato il suo diritto a impedire la costruzione di una moschea a Firenze dicendosi un «crociato». Vorrei invitarlo a rileggere la cronaca di un principe siriano del secolo XII, Usama ibn Munqidh, il quale testimonia come in Gerusalemme, sulla spianata del Haram esh-Sharif, cioè nella moschea di al-Aqsa riconvertita allora in convento-caserma, i cavalieri templari tenessero aperta una piccola moschea per farvi pregare i loro ospiti musulmani. Il nostro baldo crociato del XXI è un crociato più rigoroso dei templari del XII?

Ma questo è un tempo nel quale si è costretti a ridiscutere anche problemi che un tempo sarebbero stati giudicati ridicoli e improponibili. Starò al gioco. E mi limiterò a declinare le poche ragioni per le quali, a mio avviso, un cattolico non può che sostenere con la massima energia il sacrosanto diritto dei musulmani di Firenze ad avere una loro moschea: pur con un certo senso di disagio al constatare come si sia ridotti a dover discutere un diritto così ovvio.

Prima ragione: l’equità. Se cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, induisti, buddhisti, liberi pensatori e atei hanno diritto a seguire liberamente la loro religione e a disporre di luoghi di culto, non si vede proprio come tale diritto potrebbe essere negato solo ai musulmani, che ormai con i loro quasi due milioni di fedeli in tutta la penisola (dei quali circa 20.000 italiani convertiti) sono obiettivamente la seconda confessione religiosa d’Italia dopo i cattolici. Si sono sollevate obiezioni circa il carattere più o meno congruo dell’architettura delle moschee rispetto al nostro paesaggio e al nostro ambiente: ma qui si tratta evidentemente solo di scegliere forme adeguate. Si sono addotte anche ragioni prudenziali di sicurezza: chi ci assicura che le moschee non diventino ricettacoli terroristici? Come si potrà fare a tranquillizzare gli abitanti vicini al luogo scelto per la costruzione della moschea, che si sentiranno minacciati? Il problema sussiste, senza dubbio: ma appartiene a quel genere di questioni che si possono controllare intensificando i servizi di sicurezza e applicando una normativa che del resto in ampia misura già c’è, senza consentire che la paura debba per forza impedirci l’esercizio della libertà di coscienza. Altrimenti, l’alibi del rischio per i fedeli e per gli abitanti vicini potrebbe servire domani come alibi per chiudere anche altri luoghi di culto: chi assicura, ad esempio, gli abitanti di via Farini che un folle antisemita non possa riuscire un giorno a far saltare la sinagoga? Chi sarebbe d’accordo sulla proposta di far chiudere la sinagoga con l’alibi della sicurezza e dell’ordine pubblico?

Seconda ragione: la fede. Non è vero che in questi anni assistiamo a uno «scontro di civiltà» fra Occidente e Oriente e fra Cristianità e Islam. Il vero scontro è tra chi detiene una metafisica e un’etica che non si esauriscono autarchicamente nel circolo vizioso della vita umana e della natura e chi invece ritiene la missione dell’essere umano inesauribilmente incentrata su se stessa ed esauribile in un sistema antropocentrico. In altri termini, noi tutti ci dividiamo in chi pensa e vive etsi Deus daretur e in chi pensa e vive etsi Deus non daretur: e finisce quindi col pensare che, come diceva Dostoevskji, «se Dio non esiste, tutto è permesso». Tale progetto immanente ha finora raccolto gli applausi del mondo «laicista»: ma ormai mostra la corda, è esaurito. Lasciateci dunque esultare ogni volta che si apra un nuovo tempio nel quale si adora e si presenta la parola di Dio: sinagoga, chiesa e moschea che sia.

Terza ragione: la fedeltà alla nostra tradizione identitaria. Qui entra il principio della reciprocità, la trappola più infame e grossolana dei nostri giorni. In sintesi, si sente sovente ripetere «Noi siamo disposti a permettere l’apertura di una moschea musulmana, a patto che loro consentano l’apertura di Chiese cristiane». E ci si appella al sacrosanto principio giuridico della reciprocità: dimenticando tuttavia che tale principio vale solo fra soggetti rigorosamente omogenei. Ammettiamo ad esempio che il Papa fosse non solo il capo della Chiesa cattolica, ma avesse anche poteri sovrani su tutto il mondo cristiano; e che l’Islam fosse unito sotto un solo califfo. In questo caso, un trattato fra i due capi supremi della cristianità e dell’islam per il reciproco riconoscimento dei diritti sarebbe ammissibile. Ma questa condizione non esiste. Il «nostro Occidente», che non è più una Cristianità – dal momento che il cristianesimo non sta più alla base dei nostri sistemi giuridico, politico, diplomatico, economico – è distinto in stati ciascuno dei quali non ha alcun titolo per rivendicare a sé il diritto alla tutela di questa o di quella religione; mentre l’Islam, realtà policentrica e priva di gerarchia «ecclesiale», non ha alcun diritto né alcuno strumento per potersi porre al cospetto della legge interpretata e concretizzata dai suoi cadi e dai suoi imam, i quali a loro volta non hanno prerogativa alcuna, spesso, per imporsi ai loro stati i quali a loro volta sono dotati di aspetto e di carattere profondamente «laicisti».

In tale situazione, qualunque pretesa di «reciprocità» è moralmente infame e giuridicamente insostenibile. E spiego perché.

L’infamia morale sta nella proposta di rinunzia ai nostri liberi e sacrosanti principi nel nome della «rappresaglia» rispetto alle chiusure altrui. Per noi «occidentali», la tolleranza religiosa è un’irreversibile e irrinunciabile bandiera da due-tre secoli: possiamo mai rinunziarvi cedendo al ricatto di qualche emiro musulmano che non intende adeguarvisi? Evidentemente no. Tolleranti siamo e restiamo tali per intima e profonda convinzione; non siamo disposti ad ammainare la nostra bandiera e a metterci sullo stesso piano di chi nega la tolleranza.

L’insostenibilità giuridica sta nell’eterogeneità nei soggetti che si pretende di porre a confronto. Il diritto coranico ammette il culto esercitato dai cosiddetti ahl al-Kitab, le «genti del Libro» (ebrei, cristiani, mazdei, buddhisti), sia pure con alcune limitazioni che ormai, in molti paesi musulmani, sono diventati pure fictiones iuris. Nella pratica, il culto cristiano nelle sue varie confessioni è assolutamente libero in Egitto, Giordania, Siria, Libano, Turchia, Iran, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco; lo era nell’Iraq di Saddam Hussein, prima che l’aggressione del 2003 determinasse, tra l’altro, l’esplodere di una lotta tra fedi e culti prima di allora impensabile. Non è libero in Arabia Saudita e in alcuni emirati del Golfo Persico: ma tutto ciò non si denunzia mai (come non si denunziano le povere donne accusate di adulterio, spesso con prove false elaborate da mariti che vogliono disfarsi di loro, e pubblicamente lapidate), perché Arabia Saudita ed emirati  sono alleati fedeli e produttori utilissimi di materie prime per l’Occidente. Tutto ciò comporta un esito ridicolo. Nelle nostre città, comunità musulmane di solito costituite di algerini, tunisini, marocchini, egiziani e albanesi (e magari di cittadini italiani, per giunta nati e cresciuti in Italia) rischiano di vedersi negare il diritto a costruirsi una moschea e a pregarvi perché il re dell’Arabia Saudita non consente la costruzione di oratori cristiani sui suoi territori. L’aberrazione di una tale pretesa è evidente. Al massimo, potrebbero darsi convenzioni di reciprocità religiosa bilaterali tra singoli stati: ad esempio un accordo tra Italia e Arabia Saudita che permettesse l’apertura di chiese cattoliche officiate da religiosi italiani e poste sotto l’egida della sovranità italiana in Arabia Saudita e di moschee affidate a imam sauditi in Italia. Ma il Vaticano accetterebbe qualcosa del genere? E sarebbe possibile attuare una rete di accordi bilaterale che interessasse tutto l’Occidente e tutto l’Islam coprendone perfettamente i rispettivi territori? In attesa di tutto ciò, o in mancanza di esso, consentiamo ai nostri amici musulmani di pregare in pace nella nostra città. Concedere credito e consentire rispetto è l’unico presupposto per poter poi pretendere a nostra volta l’una cosa e l’altra.

Moschea «sì» o «no». Intervista al Direttore Andrea Fagioli