«Valori non negoziabili», il dibattito di Toscana Oggi
La libertà, diceva il filosofo francese Michel Foucault, è la «condizione ontologica dell’etica», ossia, in termini meno filosofici e più prosaici, la sua condizione di possibilità. Non vi è infatti etica senza libertà: sarebbe solo prepotenza, imposizione, dipendenza infantile. L’etica, a sua volta, è la forma ragionata e responsabile che assume la libertà, ossia, la riflessione sulle motivazioni e condizioni del suo esercizio. Non vi è infatti libertà senza etica, senza il ricorso, cioè, a principi e valori che ne orientino l’esercizio: sarebbe solo anarchia, licenza irresponsabile e, a volte, irrispettosa. Libertà ed etica, pertanto, sono costitutive e essenziali al vivere relazionale, comune e sociale, e la moralità, quale espressione pratica e normativa dell’etica, è una dimensione propria, specifica ed esclusiva dell’agire umano. Il loro esercizio si esplica nel perseguimento, nel rispetto e, al limite, nell’eventuale violazione di fondamentali valori, quali ad esempio, la salute, il benessere, la sicurezza delle persone e dell’ambiente, il rispetto dei diritti umani fondamentali e, in senso più generale, il bene della società (bene comune) o dell’umanità (bene universale).
Non sempre il rispetto di determinati valori è possibile, non tanto intenzionalmente, quanto quale inevitabile o incontrollabile esito di situazioni conflittuali dilemmatiche, come ultimamente ci insegna, per esempio, la riflessione bioetica e come da tempo i diversi comitati etici cercano di prevenire, attraverso la previa analisi e valutazione di tutti gli elementi moralmente implicati nella possibile realizzazione di un protocollo di ricerca o di sperimentazione biotecnologica e biomedica. Sono sempre più frequenti, infatti, soprattutto in questi ambiti di ricerca e nelle relative istanze di regolamentazione normativa e giuridica, delle situazioni conflittuali, ossia delle circostanze in cui insorgono dei conflitti, a volte dilemmatici e irrimediabili, tra i valori perseguiti da determinati progetti di ricerca o di promozione sociale e i valori eventualmente violati dalle loro possibili conseguenze. Se il fine non giustifica i mezzi, non ne giustifica neppure le conseguenze e il coerente perseguimento del fine può a volte comportare la violazione di valori altrettanto fondamentali. La valutazione dei rischi e l’etica delle conseguenze, infatti, stanno assumendo sempre maggiore rilevanza rispetto alla tradizionale moralità dei fini, dei mezzi e delle possibili circostanze, in relazione alle sempre più complesse problematiche emergenti e in un contesto culturale e sociale profondamente mutato e caratterizzato da una crescente interculturalità e interreligiosità.
Il ripensare, ridefinire e propriamente contestualizzare, ma anche l’elaborare adeguati e operativi strumenti di valutazione etica, sarà sicuramente uno dei compiti più delicati e urgenti che interpellerà la responsabilità di tutti coloro che in diverso modo si sentono interpellati e coinvolti nel perseguimento del bene comune, a prescindere dalla pluralità delle sue possibili interpretazioni. La verità storica è per sua natura plurale. Si rivela in una molteplicità di
circostanze e situazioni. La sua pretesa universalità, nel senso della tensione e non della presunzione, permane dell’ordine della speranza da assumere e non della certezza logica da dimostrare. In questa dinamica, la Fede come atto, la Tradizione come memoria e la Spiritualità come risorsa hanno sempre avuto e continueranno ad avere per il credente un ruolo vitale, rigenerante e orientativo.
A questo punto si pone l’interrogativo di che cosa siano i valori, di quale sia la loro specifica natura, il cui rispetto spesso si invoca e su cui tanto e appassionatamente si discute, anche a prescindere dalle diverse appartenenze ideologiche o confessionali. Chiarire la natura dei valori è fondamentale, a maggior ragione in quel delicato e essenziale processo e compito di ricerca e promozione del bene comune, prezioso obiettivo e connettivo di una pacifica e creativa convivenza sociale e civile, nel rispetto della dignità culturale di ogni essere umano. In senso filosofico, infatti, la dignità esprime il valore intrinseco della persona (da considerare sempre come un fine e mai come un mezzo), mentre in senso teologico ne evoca la sua creaturalità (la sua creazione e costituzione a «immagine e somiglianza di Dio»).
In termini molto generali e approssimativi si può affermare che i valori esprimono qualcosa che «vale» come si può desumere dalla stessa parola, e «valgono» in quanto costituiscono un «bene fruibile», per sua natura essenzialmente neutro. Sono «beni fruibili», per esempio, il denaro, lo stesso sapere (che conferisce potere), la multiforme strumentazione tecno-scientifica a cui ricorriamo nella realizzazione dei nostri progetti, ecc. Essi possono acquisire valenza morale quando vengono assunti come mezzi in funzione di un determinato fine o progetto sociale. In tal senso essi rientrano appropriatamente nell’ordine della negoziabilità, in quanto implicati nelle logiche e dinamiche economico-contrattuali, a loro volta influenzate dalle condizioni di mercato.
La natura propria dei valori morali, invece, ossia dei valori in prima istanza implicati nel perseguimento del bene comune e nell’eventuale realizzazione pratica di progetti di utilità umana e sociale, non è propriamente di ordine contrattuale e quindi negoziabile in termini economici. Non tanto perché l’etica è prescrittiva, mentre l’economia, in quanto scienza, è operativamente descrittiva, ma soprattutto perché il valore morale evoca e rappresenta la proiezione ideale di un «dover essere», di una prospettiva (orizzonte) di compimento (in senso spirituale di «perfezione»), sempre proposto e mai imposto, in ragione del rispetto dovuto alla libertà di coscienza e all’autonomia e responsabilità personali, che, è bene ribadirlo dal punto di vista antropologico e teologico, rappresentano la manifestazione più alta della dignità e creaturalità umane.
L’espressione «valori non negoziabili», pertanto, nel modo e nel contesto in cui a volte viene citata, non solo è impropria, ma svilisce la ricerca del bene comune.
Non si può non essere d’accordo con padre Brovedani nella distinzione tra i valori come beni materiali fruibili «che sono nell’ordine della negoziabilità» e i valori morali «in prima istanza implicati nel perseguimento del bene comune» la cui natura «non è propriamente di ordine contrattuale e quindi negoziabile in termini economici». Ma non si capisce come poi, alla fine dell’intervento il padre Brovedani possa affermare che «l’espressione valori non negoziabili , pertanto nel modo e nel contesto in cui viene citata, non solo è impropria ma svilisce la ricerca del bene comune».
Il cardinal Bagnasco intervenendo a Todi ha affermato che i temi della socialità non possono far perdere di vista la posta che sta alla base di ogni altra sfida: «Sono in gioco, infatti, le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino. Proprio perché sono sorgenti dell’uomo, questi principi sono chiamati non negoziabili». «Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità».
I valori della vita, della famiglia, dell’educazione, della libertà religiosa non hanno un carattere confessionale ma rappresentano punti fondamentali per un assetto della società, quindi hanno valenza sociale e hanno rilevanza per il bene comune. Dice Benedetto XVI (discorso ai parlamentari del Ppe marzo 2006) che i principi che non sono negoziabili «non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità».
Ma altre puntualizzazioni richiedono le affermazioni contenute nella prima parte dell’intervento di padre Brovedani, ove vengono affrontati i temi della libertà, dell’etica, della cultura, della bioetica. Colpisce che in queste problematiche padre Brovedani chiami in questione la «verità storica» che è «per sua natura plurale» e i cambiamenti culturali, caratterizzati da «crescente interculturalità e interreligiosità», ed anche la «dignità culturale di ogni essere umano» ma non faccia riferimento alla «verità» e alla «dignità di ogni essere umano», tout court, cioè alle parole, che puntualmente si ritrovano nei documenti del Papa e dei vertici della Chiesa e che propongono un’idea non contingente, ma umana e trascendente ad un tempo, che rimandano al diritto naturale, a una connessione cioè tra natura e ragione e all’armonia tra ragione soggettiva e oggettiva.
Il cardinal Bagnasco nel citato discorso di Todi, rifacendosi anche a Benedetto XVI e a Giovanni Paolo II ha anche affermato: «… l’uomo non è un prodotto della cultura come si vuole accreditare e la società non è il demiurgo che si compiace di elargirgli questo o quel riconoscimento secondo convenienze economiche, schemi ideologici, o dinamiche maggioritarie. L’uomo è in sé il valore per eccellenza che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi in continuo rapporto con la propria verità. Egli, infatti, porta nel suo essere un dover essere che costituisce la morale naturale. Esiste, insomma un terreno solido e duraturo che è quello dei principi o valori essenziali o nativi, quindi irrinunciabili non perché non si debbano argomentare ma perché nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili». Padre Brovedani fa anche riferimento alla difficoltà, oggi, della previa analisi e valutazione di tutti gli elementi moralmente implicati nella possibile realizzazione di un protocollo di ricerca e ai conflitti tra i valori perseguiti e i valori eventualmente violati, e afferma che «la valutazione dei rischi e l’etica delle conseguenze infatti stanno assumendo sempre maggiore rilevanza rispetto alla tradizionale moralità dei fini, dei mezzi e delle possibili circostanze, in relazione alle sempre più complesse problematiche emergenti…».
A parte che la teorizzazione di una flessibilità dei diritti a fronte delle situazioni di fatto rende già oggettivamente più deboli le motivazioni a difesa di un bene primario, ci si può domandare se abbandonando una etica fondata sull’identità dell’azione che si compie e sulle sue finaltà per abbracciarne un’altra basata sul calcolo delle conseguenze non si cada nell’utilitarismo di cui il consequenzialismo è il nucleo portante. Benedetto XVI ha detto nel discorso a Erfurt del 23 settembre 2011: «Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte -nelle questioni della diagnosi preimpiantatoria fino all’eutanasia». E al convegno sulle staminali a Castelgandolfo del 16 settembre 2006: «Il bene dell’uomo va ricercato non soltanto nelle finalità universalmente valide ma anche nei metodi utilizzati per ottenerle».
L’espressione «valori non negoziabili» sembra essere contestata dal direttore dell’Istituto Stensen di Firenze, anche se non si comprende bene se si tratta di un rilievo formale, cioè se l’espressione non sia ritenuta perfettamente idonea, oppure se la critica si rivolga ad aspetti più sostanziali. Lasciando da parte gli approfondimenti nominali, ritengo che sia abbastanza evidente che per «valori non negoziabili» si possano intendere i principi fondamentali della legge morale naturale «al di là e al di qua dei quali non ci può essere ciò che è giusto», per dirla con il poeta latino Orazio.
Nella nostra società è diventata assai difficoltosa la relazione tra la legge morale e la legge civile. Larga parte del pensiero contemporaneo ha reso più complesso il rapporto tra diritto e morale a causa di due scelte: l’assunzione del relativismo etico, quale atteggiamento fondamentale per la convivenza democratica, per cui non ci può essere una morale universale e l’adesione al positivismo giuridico, per cui alle norme legislative scritte si affida la regolazione di tutti i comportamenti umani, basta che la legge sia stata prodotta in modo legittimo e che sia neutrale, cioè che può avere qualsiasi contenuto. Il Beato Giovanni Paolo II nell’Enciclica «Evangelium vitae», pubblicata nel 1995, ha messo, primariamente, in discussione l’opinione di chi pensa che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi riconoscono e condividono. Ha poi contestato la concezione di chi ritiene che l’ordinamento giuridico di uno Stato dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e pertanto dovrebbe stabilirsi solo quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Giovanni Paolo II rifiuta in tal senso una dimensione esclusivamente aritmetica della democrazia, che rende soverchiante il principio maggioritario. Nell’«Evangelium vitae» viene, perciò, respinta l’opinione di chi sostiene che la democrazia debba costruirsi sul relativismo etico, inteso come unico mezzo per aprirsi al pluralismo e alle differenze sociali. Per questo Giovanni Paolo II ritiene inammissibile la pretesa degli ordinamenti giuridici statali di legittimare l’aborto e l’eutanasia, di per sé contrari a leggi morali oggettive e generali. Nell’Enciclica si ripresentano gli elementi fondamentali dalla visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell’umanità. Quando il Papa afferma che il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale, viene in mente l’ultima delle trenta regole del diritto romano, promulgate dall’imperatore Giustiniano, nella quale si dice: «Pleraque in iure non legibus, sed moribus constant» («Molte cose nel diritto hanno base non sulle leggi, bensì sulle usanze o costumi o consuetudini»). Il notevole ridimensionamento del ruolo dei «mores» ha favorito la enorme dilatazione delle «leges», cagionando una sorta di panlegalismo molto preoccupante e pericoloso. Giovanni Paolo II ricorda che in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza. Per quanto attiene alla necessaria conformità della legge civile a quella morale, il Pontefice riporta un celebre testo di San Tommaso d’Aquino: «Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge, ma corruzione della legge». Mi pare abbastanza chiaro che nell’«Evangelium vitae» vengano ribadite sia la moralità del diritto, che il primato della morale sul diritto. Anche nell’esperienza giuridica italiana si è pensato al conflitto tra legge morale e legge civile. Nell’elaborare la Costituzione repubblicana del 1948 si tenne conto della possibilità che il Parlamento avrebbe potuto debordare dai suoi compiti e produrre una legislazione lesiva di diritti e doveri, perciò furono previsti la Corte costituzionale ed il referendum abrogativo. Si tratta di istituzioni e strumenti umani, dunque suscettibili di carenze e imperfezioni, ma rappresentano un’istanza di giustizia, al fine di controllare e contenere gli eventuali abusi di un potere legislativo invadente e sciolto da ogni norma morale. La tutela e la promozione dei «valori non negoziabili» (o comunque si voglia denominarli) dovranno trovare il suo campo d’azione non solo nell’ambito giuridico e politico, ma anche in quello educativo. Educare, come si sa, viene dal latino educere e vuol dire «trarre fuori», un compito dei cristiani è quello di aiutare ogni uomo a scoprire nell’intimo della sua coscienza una legge «che non è lui a darsi», come rammenta il Concilio Vaticano II, una legge scritta da Dio dentro il suo cuore ed obbedirle è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa sarà giudicato.
Complimenti a Toscana oggi che apre le sue pagine al dialogo, senza il timore di affrontare problemi scottanti, all’interno della chiesa, con l’espressione di pareri diversi: non è questa, del resto, una delle funzioni più importanti dei mezzi di comunicazione cattolici?
A mio parere padre Brovedani dice una cosa molto interessante, quando osserva che, se il fine non giustifica i mezzi, non giustifica neppure le conseguenze: non basta lottare per la verità, bisogna anche valutare il risultato che si ottiene. Credo quindi che alla formula dei valori non negoziabili meriti di aggiungere qualche ulteriore osservazione.
La prima è che l’appello ai valori non negoziabili non è una prerogativa esclusiva del credente. Ogni persona umana se li trova di fronte, quando glieli annuncia, nella sua interiorità, la coscienza. E questo vale sia quando la coscienza gli dice il vero, sia quando egli ne ricava un giudizio sbagliato: basta che egli lo senta come un imperativo inderogabile della coscienza. Può quindi accadere che si contrappongano fra di loro schieramenti, con la consapevolezza da ambedue le parti di dover lottare per valori non negoziabili. Non sono così ingenuo da pensare che ciò avvenga normalmente nelle nostre ordinarie battaglie politiche. Però, per inquadrare correttamente i problemi, bisogna ritenerlo possibile. La triste storia delle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa lungo il Seicento lo dimostra. È proprio a partire da questa problematica che si è sviluppata la elaborazione, come della sola soluzione possibile, del sistema democratico di governo della società, che secondo il celebre detto di Churchill è un pessimo sistema di governo, tale però che fino ad oggi non se ne è trovato uno migliore.
Ebbene, è su questo piano che il criterio dei valori non negoziabili svela sfaccettature diverse. Per cogliere un caso evidente, non c’è criterio democratico che tenga, quando il cittadino personalmente deve rispondere alla sua coscienza e quindi non deve rendersi responsabile di un aborto. Il singolo cristiano e la chiesa, nel compiere la loro missione di testimonianza del vangelo e di servizio alla giustizia e al bene comune, sono tenuti a mettere in opera tutte le loro risorse per aiutare la donna a non abortire, per convincere gli uomini a non far abortire le loro donne, per persuadere i genitori a non consigliare l’aborto alle loro figlie.
Il piano più proprio della missione ecclesiale è, infatti, proprio questo del rapporto interpersonale e della cura spirituale delle persone, più di quello della pur dovuta cooperazione all’elaborazione della legislazione civile. Su questo secondo piano, invece, dato il sistema democratico di governo, il rifiuto della negoziazione può portare a delle conseguenze più negative di quelle di una eventuale negoziazione. Se, infatti, l’opposizione a una proposta di legge che si ritiene immorale non ha la possibilità di ottenere il consenso della maggioranza, l’opposizione medesima si risolve in una affermazione del principio priva di qualunque benefica conseguenza pratica.
Al contrario, una saggia negoziazione basata sul criterio, del resto tradizionale nella morale cattolica, del minor male, in alcuni casi può ottenere il beneficio di limitare le conseguenze negative del provvedimento in discussione. Del resto, a dire il vero, oggetto della negoziazione non è e non può esserlo per nessuno il valore in se stesso, ma lo strumento legislativo che viene messo in opera e che può salvaguardarlo o comprometterlo, comprometterlo di più o di meno.
Dico questo consapevole di dire ben poco su problemi così complessi, ma con il desiderio di dare un piccolo e discutibile contributo alla chiarificazione del pensiero intorno ad un tema molto intricato.
L’articolo del Padre Ennio Brovedani sj: «I valori non negoziabili», ha suscitato un dibattito con interventi critici, come quello di Marcello Masotti, i quali rilevano che la tesi secondo cui valori, in certe circostanze, potrebbero diventare discutibili o negoziabili, non concorda più con documenti ecclesiali. Dal mio campo dell’etica filosofica vorrei dare un contributo cui invita lo stesso Padre Brovedani quando dice: «l’elaborare adeguati e operativi strumenti di valutazione etica sarà sicuramente uno dei compiti più delicati e urgenti che interpellerà la responsabilità di tutti coloro che in diverso modo si sentono interpellati e coinvolti nel perseguimento del bene comune, a prescindere dalla pluralità delle sue possibili interpretazioni. La verità è per sua natura plurale». Le mie annotazioni apprezzano questa impostazione stimolante della questione attorno ai valori e cercano di chiarire alcuni concetti importanti in questo dibattito:
1. Se vi sono molti valori o beni, da quelli inferiori, vicini alle situazioni concrete, che possono cambiare, a quelli superiori, fino al più alto, il bene comune, mi domando se quest’ultimo possa cambiare di nuovo. Mi pare di no perché fondato sulla natura razionale dell’uomo stesso. Infatti la tradizione (fin dall’antichità, sia nell’indirizzo platonico-agostiniano, sia in quello aristotelico-tomista) lo definisce come l’attualità dell’anima razionale nelle virtù, realizzata nella perfezione felice della vita umana. Questa definizione non accetta una pluralità di possibili interpretazioni, la quale risulterebbe solo dallo storicizzare la verità e la stessa natura umana. Mi sembra difficile evitare un relativismo conoscitivo e morale. Vi sarebbero solo beni individuali mutabili ma non più quel tradizionale «bene comune» immutabile, il quale include la superiorità dell’intelletto al tempo storico (San Tommaso: intellectus est supra tempus). Questo intelletto costituisce la natura umana intellettuale o razionale, nella sua identità immutabile, e ne è auto-consapevole!
2. Dopo il testo sopra citato, Padre Brovedani continua dicendo della verità storica: «Si rivela in una molteplicità di circostanze e situazioni. La sua pretesa universalità, nel senso della tensione e non della presunzione, permane dell’ordine della speranza da assumere e non della certezza logica da dimostrare». A questa costatazione che suona plausibile ma si potrebbe distinguere tra la molteplicità di circostanze con le cose e gli uomini individuali concreti, come oggetti dell’esperienza sensitiva, e il loro essere che è sempre intelligibile, cioè oggetto dell’intelletto, trascendentale, atemporale, poiché analogamente comune a tutti gli individui. Certamente, al livello delle esperienze sensitive c’è una verità sensibile, mutabile, come rileva Padre Brovedani giustamente. Ma al livello della conoscenza intellettuale, riferito all’essere e all’essenza delle cose, si rivela una verità intelligibile. Infatti le cose sono pluridimensionali, offrendo sia aspetti mutabili (anche storici) sia aspetti immutabili (ontologici), ma il loro essere è sempre intelligibile, analogamente universale, secondo la tradizionale dottrina dell’analogia dell’essere, ignorata da indirizzi moderni.
L’intelletto comprende la verità universale nell’essere delle cose, nonché nel loro essere buono, al quale si aggiunge l’essere moralmente buono negli uomini . Il bene morale e i valori non vengono pretesi o presunti dall’intelletto, ma si trovano realmente nell’uomo, riferiti al suo oggettivo essere buono. E l’intelletto li comprende nel presente, non come la posizione storicizzante vuole, nel futuro con la speranza da assumere. Del resto, si potrebbe evitare l’alternativa tra verità storica e verità meramente logica dimostrativa, riconoscendo pure la verità ontologica nell’essere delle cose, nonché la verità etica, basata sull’essere buono dell’uomo.
3. Con la riduzione della conoscenza umana all’esperienza empirico storica, vedendo l’uomo soltanto nel contesto dinamico della storia e dei cambiamenti della società, la seconda parte dell’articolo del Padre Brovedani pone con chiara conseguenza «l’interrogativo di che cosa siano i valori», «nel rispetto della dignità culturale di ogni essere umano» e arriva a una risposta ambigua: «i valori valgono in quanto costituiscono un bene fruibile, per sua natura essenzialmente neutro», come per esempio «il denaro, lo stesso sapere (che conferisce potere), la multiforme strumentazione tecno-scientifica» ecc. che assumono un significato positivo solo «in funzione di un determinato fine o progetto sociale», rientrando «nell’ordine della negoziabilità». A mio avviso, la questione dei valori, nonché del bene morale comune e dell’ultimo fine della vita, richiede di riprendere la dignità dell’uomo non come fenomeno culturale, mutabile storicamente, ma come qualità della sua anima intellettuale. Infatti l’intelletto la comprende realisticamente come il suo proprio valore molto positivo, non neutro o negoziabile. Gli esempi menzionati sono disuguali: il denaro e la tecnologia sono mezzi per determinati fini, mentre il sapere come qualità della mente è un alto fine. E ogni progetto sociale deve mirare alla finalità della società, che infine è il bene comune. Tuttavia questo l’autore ha reso discutibile (si veda sopra). Potrebbe essere difficile favorire la negoziabilità dei valori, se il senso dei valori stessi diventa discutibile. Frattanto ognuno «fruisce» ciò che gli pare «valere». E l’etica finirebbe qui.
Ne nel dibattito aperto su «Toscana Oggi» da padre Brovedani su «I valori non negoziabili» c’è spazio oltre i teologi, i filosofi o comunque «i pensatori», vorrei esprimere alcune considerazioni dopo che per quasi mezzo secolo nella mia attività politica, legislativa e amministrativa, ho fatto i conti con il rapporto fra «bene morale» e «bene comune», come avevo imparato in anni ormai lontanissimi in ambienti formativi cattolici.
Appresi allora che il «bene morale» rispondeva al primato della coscienza individuale rispetto alle scelte e ai comportamenti, mentre il «bene comune» rispondeva alla valutazione attinente la comunità alle regolamentazione della quale erano indirizzate le scelte legislative o amministrative (si portava allora come esempio lo Stato pontificio che proponeva alla coscienza individuale una determinata morale sessuale, bene morale, ma regolamentava la prostituzione per rispondere ad esigenze di bene comune).
La distinzione era chiarissima.
L’obiezione di coscienza al servizio militare era la testimonianza di un valore irrinunciabile che lo Stato riconobbe come diritto individuale nel rispetto del primato della coscienza personale.
Poi si estese quella terminologia, o analoga, come «libertà di coscienza» nel voto, anche nelle aule parlamentari, su questioni eticamente sensibili. E qui comincia la confusione perché la libertà di coscienza come presupposto della scelta del bene morale veniva invocato per scelte che attengono al bene comune. Sarebbe come dire trasformare un valore morale irrinunciabile proprio della coscienza individuale in un «valore non negoziabile» e perciò imposto nella disciplina della comunità.
Nell’azione legislativa e amministrativa la responsabilità personale attiene al dovere dell’amministratore e del legislatore di valutare il bene comune in totale autonomia da considerazioni esterne alla valutazione del bene comune. E questo vale anche per chi s’impegna politicamente con motivazioni legate ad una ispirazione religiosa che aumenta l’impegno alla propria autonoma assunzione di responsabilità.
Ho sempre considerato questa autonoma responsabilità un imperativo morale che non sarebbe stato rispettato se fossero prevalse altre considerazioni, nella scelta della normativa tesa al bene comune, compresa la considerazione del mio «bene morale».
In proposito Leopoldo Elia nel concludere la sua nota relazione «Introduzione ai problemi della laicità» scrive parole significative e pregnanti: «…che estensione ha la pretesa all’autodeterminazione umana per essere compatibile con la dignità della persona? In altre parole in che limiti l’uomo ha potere su se stesso, sul proprio corpo, sulla propria vita? È evidente che per dare risposte a queste domande anche il ricorso al principio di maggioranza, che pure è fondamentale, può rivelarsi insoddisfacente o per lo meno è da usarsi con grande cautela, come già a suo tempo suggeriva Aldo Moro. Se necessario però, le votazioni parlamentari in queste materie sensibili dovrebbero essere slegate dalla disciplina di voto richiesta dai capigruppo: non dimenticando che le leggi vanno fatte per i credenti e per i non credenti e che le leggi facoltizzanti… sono di norma le più adatte ad una società pluralista e multiculturale».
Ognuno di noi (credente o non credente, come nota giustamente don Dianich) ha riferimenti a valori che considera irrinunciabili (talvolta fors’ anche inconsapevolmente) ed a questi renderà testimonianza con il comportamento anche nei rapporti con il prossimo per costruire una valutazione condivisa, che è tale se il prossimo assume come riferimenti gli stessi valori nella libertà della propria coscienza.
Ma realizzare una auspicabile condivisione di valori non significa e non può significare che essa è affermata da una norma giuridica o da atti amministrativi sulla base di una traduzione di considerazioni etico culturali in norme dispositive, traducendo il convincimento in obbligo e la personale irrinunciabilità del valore in «non negoziabilità» decretata unilateralmente
La negoziabilità di un valore ne presuppone la piena proprietà, ma chi è proprietario del bene morale per poterne dichiarare o negare la negoziabilità se non la sola coscienza individuale?
Sembra quasi che dopo aver affermato con tutta la solennità del caso il primato della coscienza individuale, e dunque della libertà come condizione essenziale per effettuare responsabilmente le proprie scelte, poi si riducono gli spazi di libertà dei fedeli in ambiti predefiniti (ricorda Ford che diceva che i propri clienti erano liberi di scegliere l’auto del colore che preferivano purché fosse nero) nella sostanziale negazione del primato della coscienza. (Non viene in mente la «Leggenda del grande inquisitore»?).
Ricordo che nella mia lontana giovinezza Francesco Carnelutti in una affollatissima conferenze nel cenacolo di Santa Croce dal titolo «Il discorso della libertà» in cui lesse e commentò il vangelo del Giovedì Santo cercando di interpretare la frase di Gesù a San Pietro che cerca di sottrarsi al lavaggio dei piedi, «se io non ti laverò i piedi non sarai degno di entrare nel regno dei Cieli». Arrivò alla conclusione che quella frase significava «che c’è nell’uomo un elemento di fronte al quale anche Dio si inchina: e questo elemento non può che essere la libertà» concludendo con una espressione che mi è rimasta impressa quando Descartes ha detto «cogito ero sum» ha detto una cosa grande ma ancora più grande se avesse detto «volo ergo sum».
Nel suo intervento circa i valori non negoziabili don Severino Dianich ha difeso la tesi di una «saggia negoziazione basata sul criterio, del resto tradizionale nella morale cattolica, del male minore». Il noto teologo pisano concede che oggetto della negoziazione non possa essere il valore in se stesso, ma piuttosto lo strumento legislativo ad esso inerente. Secondo il prof. Dianich «se l’opposizione ad una proposta di legge che si ritiene immorale non ha la possibilità di ottenere il consenso della maggioranza, l’opposizione medesima si risolve in un’affermazione del principio priva di qualunque benefica conseguenza pratica». Queste affermazioni, caratterizzate da un apparente buonsenso, destano più di una perplessità. Pur non essendo raffinati teologi mi sembra di potere escludere che il concetto di «male minore» sia riconducibile alla dottrina cattolica. Nella costituzione conciliare Gaudium et Spes infatti la Chiesa insegna che attraverso la voce della coscienza l’uomo è chiamato «a fare il bene e a fuggire il male» ed in continuità con l’ammonimento dell’Apostolo Paolo (Rom 3,8), il Catechismo della Chiesa Cattolica dichiara che «Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene» (CCC 1756). Ne consegue che anche nella negoziazione legislativa non è possibile derogare al principio che non si può mai compiere il male. La questione è inoltre chiarita da innumerevoli interventi magisteriali che non consentono libere interpretazioni teologiche. Il beato Giovanni Paolo II insegna che «un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica» (EV 73). Come osservato dal prof. Ángel Rodríguez Luño, rispetto al bene comune le leggi possono essere solo giuste o ingiuste, le prime sono sempre perfettibili, le seconde sono caratterizzate da un grado variabile di iniquità, ma non esiste la varietà intermedia. È chiaro che di fronte ad una legge ingiusta il cattolico impegnato in politica che si trovi nell’impossibilità numerica di ottenere l’abrogazione totale di tale legge dovrà battersi per ottenere l’abrogazione parziale più vasta ed efficiente possibile in difesa del bene offeso da quella legge. Qui si tratta di compiere non il male minore, ma il bene possibile, perché, questo sì nel rispetto della tradizione, ad impossibilia nemo tenetur. Si tratta di una prospettiva ben diversa da quella che identifica nel compromesso il fine buono, dove l’azione politica è concepita come opera di «sintesi» relativistica di proposte divergenti. Quando il politico cattolico adotta un tale modus operandi non soltanto non difende la verità del bene comune, ma spesso, avendo collaborato alla sua redazione, finisce per difendere il risultato della propria mediazione e biasimare chi ne denunci l’iniquità. Ciò si collega alla critica di don Dianich verso chi si mostra indisponibile alla mediazione; lo indica come un inutile sostenitore di un principio a discapito di un beneficio pratico. Questa prospettiva sembra risentire pesantemente di una visione dell’azione morale dimentica che questa non ha conseguenze solamente esterne a colui che la compie, ma piuttosto che l’interiorità personale si trasforma mediante l’azione: «Noi siamo i genitori di noi stessi [ ] con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo» è la lezione di San Gregorio di Nissa, cosicché sostenendo la mediazione contro la vita innocente ci trasformiamo in sicari della vita. Ma anche volendo assumere quel criterio teleologico evocato nell’articolo, ma rifiutato dalla prospettiva cattolica nell’enciclica Veritatis splendor (VS 79), è davvero certo il teologo Dianich che la testimonianza integrale di fedeltà alla verità morale non abbia conseguenze pratiche benefiche? È certo che rimanere indisponibili al male, anche se mitigato, non sia anch’essa una forma altissima di carità?
Molti decenni di fatica per tentare di introdurre nella dimensione pubblica i cosiddetti «valori non negoziabili», mi suggeriscono di intervenire anche io nella discussione aperta lodevolmente da «Toscana Oggi» su questo argomento.
Credo che preliminarmente sia necessario fare chiarezza su alcuni punti. In primo luogo quando si parla di «valori non negoziabili» si intende fare riferimento al bene comune, non al solo ambito della coscienza individuale. Ad esempio: per il credente la preghiera personale e comunitaria è un valore altissimo, ma nessuno lo qualifica come «non negoziabile». La «non negoziabilità» evoca per definizione i rapporti tra gli uomini: nella «contrattazione pubblica», nella quale non tutti la pensano nello stesso modo, ci sono alcuni valori attinenti al bene comune che non sono rinunciabili. Per capire i problemi pratici propongo di sostituire la parola «valori» con la parola «fini». Per costruire l’ossatura giusta della società civile bisogna perseguire inevitabilmente alcuni scopi. Interpretare i «valori» come «fini» è una operazione che presenta molti vantaggi. Intanto la discussione è sottratta all’impressione di essere astratta, accademica, ideologica e conduce, invece, sul terreno pratico-operativo. Inoltre il fine da raggiungere apre la mente al futuro ed al nuovo, mentre il «valore da difendere» fa pensare, sia pure erroneamente, ad un atteggiamento di conservazione. Il valore non negoziabile è forza propulsiva, non trincea difensiva. Ma, soprattutto il fine da perseguire introduce il tema importantissimo della gradualità. Se voglio raggiungere la vetta del Monte Bianco non tradisco il mio progetto se una tempesta mi costringe a fermarmi per qualche tempo al rifugio Torino. Ma, allora, che significa la «non negoziabilità»? In primo luogo essa sottolinea l’essenzialità, l’importanza fondamentale di un fine da perseguire. Esso è talmente caratterizzante il bene comune, da non poter mai essere considerato come «merce di scambio». Purtroppo è accaduto, paradossalmente, che proprio in nome della «non negoziabilità» si è tentato di giustificare l’immobilismo. Da un lato si è detto che essendo la politica il luogo della contrattazione, i valori, per restare integri, devono essere chiusi nel segreto delle coscienze; dall’altro, constatando il rifiuto dei valori da parte di gran parte della società e delle forze politiche per evitare ostacoli ad alleanze di governo e per la presunzione di guadagnare voti si è giunti alla medesima conclusione: i valori non negoziabili -in particolare quello della vita-possono essere oggetto di «predicazione occasionale», ma non di un progetto politico. Ma non ci si accorge che proprio così i valori sono negoziati, divengono merce di scambio, vengono addirittura svenduti. Su un piatto della bilancia vi è il silenzio «politico» sui valori, sull’altro il potere o altri vantaggi. Questa riflessione è di straordinaria attualità in un momento in cui i cattolici prendono atto della loro responsabilità nuova ed insostituibile in Italia. Tutti i valori «non negoziabili» si riassumono nella «questione antropologica», come significativamente ha detto il Card. Bagnasco a Todi introducendo il noto convegno che anche l’opinione pubblica «laica» ha salutato come momento germinale di una nuova speranza per l’Italia. Del resto già Giovanni Paolo II aveva sollecitato un rinnovamento civile guidato dal movimento cattolico a partire dall’urgenza di proteggere il diritto alla vita, così come era successo agli inizi del secolo scorso quando la presenza sociale cristiana era stata sollecitata dalla questione operaia. Una forza politica di ispirazione cristiana deve perciò costruirsi attorno ai valori non negoziabili e lasciarsi da essi identificare. Attorno a questi legarsi in alleanza e giudicare l’azione dei governi. Accettando certo il criterio della gradualità, ma non quello del silenzio. Né si tema di essere minoranza. Se fosse in gioco la democrazia una forza politica minoritaria non si arrenderebbe per il fatto di essere minoritaria, ma moltiplicherebbe l’impegno per far vincere la democrazia. La politica non si fa soltanto con i voti nelle aule parlamentari, ma si fa anche e forse più ancora nei dibattiti pubblici, nelle presenze sui mezzi di informazione, nella illuminazione del popolo. Quando la questione antropologica è divenuta la questione sociale i cristiani non dovrebbero politicamente aver paura dei valori non negoziabili, ma anzi avvertire l’orgoglio e la gioia di una missione storica che chiede loro di rendere vere le parole d’ordine della modernità: l’uguaglianza, la dignità umana, i diritti dell’uomo, la solidarietà.
Il pensiero cattolico utilizza spesso l’espressione «principi non negoziabili» per indicare quei valori fondamentali e irrinunciabili: la tutela della vita umana dal suo concepimento sino alla fine, il matrimonio tra l’uomo e la donna, come cellula della società, la libertà religiosa. Sono beni senza dei quali non ce ne potranno essere altri, come il lavoro, l’inclusione, la sicurezza, l’ambiente, la pace.
Ora, l’espressione «non negoziabili» potrebbe creare un certo malcontento, come se si trattasse di nuovi dogmi che i credenti vorrebbero imporre ad altri. Allora, si deve chiarire che questi valori non presuppongono di per sé la fede cristiana, ma semplicemente il senso comune. Sono valori umani, che hanno una fondazione razionale e, pertanto, non costituiscono alcuna indebita ingerenza. Conviene dire questo per chi guarda spesso con sospetto il contributo che la religione può portare alla vita sociale.
«Non negoziabili» significa che non si può fare commercio con essi, perché appartengono al piano della piena gratuità, a ciò che costituisce veramente l’essere umano in quanto tale. La persona umana non ha valore, così come non lo hanno l’amore coniugale o la libertà. In un contesto dove tutto si può comprare, dove si può diventare padroni di tutto, giova forse ricordare che esiste qualcosa che non ha prezzo. Nessuno si è dato la vita, nessuno ha meritato di essere amato.
Se in questo momento l’economia sembra essere l’argomento più importante, se la preoccupazione è quella di stare nei parametri stabiliti, non si può dimenticare che c’è un altro ordine, che è quello della gratuità, cioè della non-monetizzazione. Proprio la gratuità dice la verità sulla persona: essa porta in sé il segno di un dono cha la precede e si realizza nel farsi dono disinteressato. Nessuno può appropriarsi di ciò che è gratuito: né l’economia di mercato, né la forza, né alcuna ideologia. Questo significa rispettare la vita, il matrimonio, la famiglia, la libertà religiosa. Riconos cere che questi valori non appartengono a nessuno, ma sono di ciascuno. Sono la condizione perché ogni persona possa realizzarsi in quanto attore protagonista del suo tempo. Neanche si deve pensare che debbano essere riconosciuti, come se qualcuno bontà sua permettesse a qualcun’altro di vivere, di amare, di professare la propria fede. No, sono la condizione nella quale Dio ha creato ogni persona e l’ha posta nell’esistenza. Si giunge, così, naturalmente a parlare di Dio e, per un momento, bisogna mettere da parte quello che il serpente antico ha insinuato a chi è venuto prima di noi: il sospetto che Dio, il Creatore e Padre, sia un concorrente dell’uomo, che voglia schiacciarlo e umiliarlo. In epoca a noi recente, alcuni chiamati opportunamente maestri del sospetto hanno teorizzato che sarebbe stato meglio sbarazzarsi di Dio, così che l’uomo sarebbe divenuto finalmente libero, sarebbe divenuto adulto. Queste ideologie sono tramontate, ma è rimasta purtroppo l’idea che riferirsi a Dio significhi dividere gli uomini, perché non tutti crederebbero in lui. Eppure, le cose stanno diversamente: spiegare l’uomo con Dio, significa illuminarlo in pienezza, significa indicare un cammino di libertà e di realizzazione. E questa luce è tanto necessaria. Senza il Creatore, la creatura svanisce, perde la sua consistenza. Con il Creatore rifulge in tutta la sua bellezza. Forse è contro l’uomo affermare che egli nasce da un disegno di amore che lo ha preceduto? È contro l’uomo dire che nella complementarietà del maschile e del femminile, egli si arricchisce? Che i figli domandano un ambiente sereno, stabile e duraturo? Che egli si realizza quando si eleva sulle cose materiali, lasciando che il suo spirito incontri il Creatore? Se questo è vero, i principi «non negoziabili» devono essere presentati non come spade da brandire contro qualcuno, né devono essere considerati come un problema che riguarderebbe i cattolici. Né in un caso, né in un altro si apre quel dialog o, così necessario ai nostri giorni, in cui si deve ritrovare il consenso attorno a scelte inedite. Insomma, «non negoziabili» non è sinonimo di «non argomentabili». Lo ha ricordato recentemente il card. Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, intervenendo alla Giornata di riflessione sulla formazione sociale e politica di «Retinopera». «Ci sono principi che non sono negoziabili, dove l’espressione negativa non sta a dire che non se ne possa discutere, anzi, significa piuttosto che, per loro natura, essi emergono con evidenza propria della realtà, infrangibili e intrattenibili, salvo che non si eserciti la violenza». Le parole del porporato invitano a guardare alla realtà, al senso comune si direbbe: al buon senso per trovare quanto ragione e fede mostrano; invitano a contemplare qualcosa che ha valore non commerciale e, per questo, non si può sciupare o trattenere; invitano ad allontanarsi da ogni violenza che condurrebbe a imporsi sull’altro.