«Ai confini della realtà»
Alzi la mano chi, fra quelli che la televisione la vedevano già agli albori (diciamo all’inizio degli anni Sessanta, i mitici anni Sessanta), non ricorda un qualche brivido provato con quella strana musichetta e con quelle buffe storie che in effetti un po’ turbavano.
Ai confini della realtà, la serie tv che adesso Rai3 tutte le sere d’estate ritrasmette attorno alle 20, ci portava a vivere «in una dimensione irreale» e qualche sogno, a noi bambini del tempo, deve in effetti avercelo turbato se anche oggi, che bambino proprio non sono tranne che in quella cosa fondamentale chiamata cervello, da qualcuno di questi racconti un po’ turbato rimango tuttora.
Guarda tu, ad esempio, la (inquietante) storia dei manichini.
In un enorme supermercato, come da noi allora non esistevano e come da noi oggi sono piene tutte le città perché in compenso sono vuoti i negozietti, si aggira una signora.
Qualcosa non va: se ne accorgono subito tutti, ma soprattutto se ne accorge la signora – una bella signora statunitense di fine anni Cinquanta. Non un capello fuori posto – quando si rende conto di essere solo … un manichino: uno fra i tanti soggetti di plastica che popolano i reparti di ogni negozio. Soggetti inanimati che però, in realtà, una loro vita e perfino una loro anima le hanno eccome. Ogni tanto ciascuno di loro può diventare umano e restare in questa magica condizione per un mese. Solo per un mese, però, perché il turno del collega arriva veloce.
All’inizio stranita, ma poi finalmente convinta, la signora accetta di ridiventare manichino: un altro è pronto per gettarsi nell’avventura umana. E guardandoti attorno rischi di restare confuso: quello lì sarà un manichino o un essere umano? Di plastica o di carne?
L’inizio e la fine di ogni racconto, il tutto in un bianco e nero destinato ancora più a allargare una sana angoscia, è caratterizzato da una spiegazione. Sempre, è naturale, «ai confini della realtà». Evidente la natura pedagogica dei racconti: la guerra mondiale era finita da poco ma sulla scena non mancavano tensioni e paure. «Ai confini della realtà» serviva anche per dare qualche indicazione di vita.
Tipico, fra i tanti, l’episodio sui signori Castle.
Edna e Arturo hanno un negozietto di piccolo antiquariato. Oggettini semplici, di scarso valore. Gli affari non sembrano andare bene, anzi: Arturo fa i conti con bollette di ogni tipo. Ma è un tipo generoso e a una vecchietta che, povera in canna, tenta di rifilargli una vecchia bottiglia trovata nei rifiuti ma fatta passare come antico bene di famiglia, Arturo – tenendosi la bottiglia – finisce per regalare un dollaro.
Ma ecco la sorpresa: dalla bottiglia esce una sorta di genio (che assai poco modestamente dice di chiamarsi proprio così: «sono un Genio»). Con tanto di cappello e di modi affettati, dice di poter offrire quattro desideri e garanzia di pieno successo: ogni desiderio è irrevocabile e potrà essere annullato soltanto da un altro desiderio. Poi lui, il Genio, tornerà nella bottiglia «per altri cento anni».
Arturo non ci crede, ma lo mette alla prova e, sciocco come pochi, si fa riparare una vetrinetta: il Genio fa il suo dovere e Arturo, che così si è già mangiato il primo dei desideri, a quel punto punta alto chiedendo (potenza dell’inflazione) una cifra allora enorme: un milione di dollari, in banconote da 5 e 10.
Dall’alto, per la felicità dei due, scende una pioggia di banconote che il buon Arturo comincia subito a condividere con i vicini, perfino con il reverendo («per tinteggiare la chiesa»). Tutti contenti. Compreso un tizio che palesandosi uomo delle Entrate darà un responso assai duro: il Fisco (che Fisco, nell’America di quegli anni !!!) su un milione di dollari ne vuole, occhio alla precisione, ben 942.640. Tolti i circa 60 mila dati in beneficenza, ai due di dollari ne restano solo cinque.
Visto che con i soldi non è andata bene, Arturo tenta con il potere. E chiede di poter «comandare» una nazione contemporanea dove però, per evitare problemi, non ci siano elezioni. Il Genio sorride e lo fa ritrovare, con tanto di baffetti e di svastica stile ultime ore, nel bunker di Adolf Hitler. Di sicura fede democratica, e anche perché l’unica alternativa era ingoiare una fiaschetta di cianuro, il buon Arturo chiede di annullare tutto e di tornare a essere lui. Cosa che accade. Con il quarto e ultimo desiderio.
Il Genio rientra nella bottiglia. Edna e Arturo, contenti che l’avventura sia finita senza danni, si baciano felici ormai convinti che è sempre «meglio contentarsi di quello che abbiamo». Perfino la vetrinetta accomodata viene di nuovo rotta: ma ai due, ultrafelici, importa poco per quel vetro di nuovo incrinato.
Evidente la lezione, e la pedagogia. Ma giusto anche il consiglio finale «a chi va in caccia di miracoli» sia ieri che oggi. «Prima di buttare via una bottiglia vecchia, guardatela bene sempre. Non si sa mai».